Avevo già letto il suo La guerra dei metalli rari. Non potevo lasciarmi sfuggire Inferno digitale, sottotitolo Perché internet, smartphone e social network stanno distruggendo il nostro pianeta, l’ultimo saggio del giornalista Guillaume Pitron. E devo dire che ne è valsa la pena. Meno strutturato, se vogliamo, del precedente saggio, ma comunque sempre argomentato e diretto, Inferno digitale ci prende per mano e ci accompagna in giro per il mondo per mostrarci cosa ci sta dietro i nostri like, i nostri sms, i nostri tag, i nostri post. Esatto, proprio come questo che state leggendo.

Ci mostra come quel mondo che noi crediamo, ci illudiamo, sia dematerializzato, in realtà sia molto concreto, pesante e assai inquinante. Un po’ come accade con i pannelli solari, le pale eoliche o le batterie delle auto elettriche che solo le anime candide credono che siano pulite, come dimostrò Pitron con il precedente saggio. Anche qui si tratta di sfatare un mito, appunto quello della immaterialità. A cominciare dai molto materiali rifiuti elettronici, visto che la durata media di un pc è passata in tre decenni da undici anni a quattro. E ogni anno, osserva il giornalista, vengono prodotti l’equivalente di cinquemila torri Eiffel di rifiuti elettronici (Pitron è francese e quindi un po’ nazionalista…).

Ma i rifiuti elettronici sono soltanto l’ultimo anello della catena. A monte ci stanno tutte le strutture e infrastrutture necessarie per farci connettere, via smartphone, tablet o pc. Esempio, solo di data center ne esistono circa tre milioni che hanno una dimensione inferiore ai 500 mq, 85000 di dimensioni intermedie e circa una decina di migliaia grandi come l’Equinix AM4, alla periferia di Amsterdam, un enorme edificio di metallo alto dodici piani, che in loco chiamano “il cloud”. A nord di Parigi si sta per realizzare una fabbrica digitale grande quanto cinque volte lo Stade de France e in Cina c’è il più grande data center del pianeta a Langfang: 110 campi di calcio. Già, siamo abituati a pensare al cloud come a una nuvola, qualcosa di quasi impalpabile, non certo a cemento e acciaio, e a consumo di suolo.

Ma l’inchiesta di Pitron è ricca anche di chicche come quella che – posto che i data center conviene installarli sempre più a nord, anche in considerazione del global warming, in modo da risparmiare sull’enorme mole di energia elettrica che serve per raffreddare le macchine – ecco che Facebook va a installare il proprio data center in Lapponia, a Lulea, cento chilometri dal Circolo Polare Artico: due anni di lavoro per un edificio di tre ettari di dimensione. Consumo di suolo per realizzare i data center, enormi consumi di energia elettrica – non solo e non tanto per far funzionare i nostri strumenti casalinghi, quanto per far funzionare e raffreddare le macchine, e per archiviare i dati, e archiviare l’archiviazione dei dati.

Ma non è tutto. Ovviamente, ci sono anche i buchi sempre più frequenti nelle nostre città: i molto materiali cavi. Cavi che altrettanto ovviamente devono collegare tutto l’orbe terracqueo. E qui si dipende dalla Cina: “La Cina ha previsto di investire 79 miliardi di dollari nello sviluppo di apparecchiature telefoniche e tecnologie della sorveglianza, nella costruzione di smart cities e naturalmente in un’ambiziosa rete di cavi sottomarini (in cui eccelle la Huawei, nda). Pechino ha attivato o sta attualmente sviluppando, circuiti in fibra ottica in 76 paesi, dai suoi vicini più prossimi fino all’America Latina.”

Perché non c’è solo la via della seta fatta di strade, ferrovie, porti, ma anche la via della seta digitale. E già si pensa all’Arctic Project, un cavo sottomarino nell’Artico lungo 14000 chilometri per collegare il Regno Unito alla Cina. Certo che tutta questa rete di cavi da cui dipende l’economia mondiale qualche problema lo pone: e se un cavo venisse tranciato? Ecco che già si pensa di pattugliare militarmente i punti ritenuti sensibili della rete. Del resto, provate a pensarci: zac! un cavo tagliato e il mondo va in tilt. Altro che immateriale…

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