Fino al 1914 a Istanbul non c’era neppure una sala cinematografica (per fornire un raffronto, il cinema più antico d’Italia ancora attivo è il Sivori di Genova dove, nel maggio del 1896, venne proiettato L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat dei fratelli Lumière). Del resto, solo sei film, esclusi alcuni documentari di guerra, vennero prodotti durante l’Impero ottomano. Il sultano ῾Abd ul-Ḥamīd, che regnò dal 1876 al 1909, pare non amasse il cinematografo. Il primo lungometraggio di finzione prodotto in Turchia è del 1917: Pençe (L’artiglio) ed è diretto da un intellettuale illuminato come Sedat Simavi (1896-1953). Tramontato l’impero ottomano, nel 1922, e creata la repubblica, passerà molta acqua sotto i ponti (di Istanbul) prima di giungere a donne d’avanguardia dietro la macchina da presa come Bilge Olgaç, scomparsa nel ’94, o Yeşim Ustaoğlu, che si sono imposte in numerosi festival internazionali.

Con questa premessa voglio sottolineare come la Turchia sia tornata ad essere un faro culturale mondiale e non più, come scrive Marco Ansaldo nel suo recentissimo La marcia turca, Marsilio, «il paese spento, triste, in bianco e nero che per tutto il secolo scorso ha vissuto nell’ombra dei suoi vicini». Oggi la Turchia è, a tutti gli effetti, «il protagonista indiscusso della scena internazionale». Ansaldo, genovese, giovane cronista al Corriere Mercantile, poi inviato e vaticanista de la Repubblica, oggi consigliere scientifico di Limes da Istanbul e analista del programma Atlantide di Andrea Purgatori su La7, ha voluto intitolare questo suo nuovo libro La marcia turca anche per l’alto valore simbolico del terzo movimento della Sonata K331, nota anche come Rondò alla Turca, composta dal genio di Mozart nella seconda metà del Settecento, periodo in cui la cultura ottomana suscitava grandissimo interesse, anche in pittura oltre che in musica (del resto anche il singspiele – ovvero il nonno dell’operetta – mozartiano Il ratto dal serraglio è ambientato in Turchia…).

Il libro di Ansando esce in un momento assai delicato per la Turchia: prima il terribile terremoto del 6 febbraio scorso, ora il ballottaggio, il prossimo 28 maggio, che si profila rovente in tutti sensi, quando si deciderà se il presidente Recep Tayyip Erdoğan, 69 anni, Tayyip bey, come lo chiama il popolo, in carica dal 28 agosto 2014, verrà riconfermato oppure se lo sfidante Kemal Kılıçdaroglu, detto ‘faccia di Gandhi’ per una sua vaga somiglianza con il leader indiano, riuscirà a scalzarlo. Su Erdoğan, scrive Ansaldo, «sono stati scritti nel mondo decine di libri, e la sua figura e azione […] sono state seguite e analizzate da schiere di politologi, osservatori geopolitici, diplomatici, scrittori giornalisti, persino psicologi. Ne hanno studiato la mente e financo le occhiaie, significative pure quelle, a ben guardarle, come fossero una mappa cerebrale» eppure «non più tardi del 2021, il capo di Stato turco veniva dato dalla grande stampa internazionale – e a ragione intendiamoci – come un leader sul viale del tramonto». Dal 24 febbraio 2022, però, giorno dell’ invasione della Russia in Ucraina, i giudizi su Erdoğan si sono ribaltati, quando si imponeva «come il punto di possibile dialogo tra Federazione Russa e Ucraina, diventando d’un colpo il mediatore fra i due contendenti» e «facendo leva sulla straordinaria posizione geografica del proprio paese, incassando nel contempo forti dividendi personali sul piano internazionale, oltre che su quello economico, agendo con un’abilità definita da alcuni osservatori ‘diabolica’ su uno scacchiere mondiale oggi centrale di cui è stato lesto a impossessarsi, dirigendolo verso sé stesso con un evidente tornaconto».

«Qui non si parla di moralità», ci tiene a precisare Ansaldo. «È fuori dubbio, ed è chiaro a ognuno – a partire da chi scrive e lo ha vissuto in maniera purtroppo devastante personalmente – che Erdoğan (insieme ai suoi scherani e sottopancia, spesso mascherati in doppiopetto) sia un personaggio spietato, brutale nella repressione interna di critici, oppositori e avversari, che si tratti di giornalisti o di magistrati, di laici o di insegnanti, del tutto insensibile alle rivendicazioni di più ampi diritti civili, e propugnatore di battaglie contro tutte le minoranze, che siano etniche o sociali (vedi i curdi, gli armeni, oppure i gay e gli Lgbt)». Fatto sta, però, che «è la Turchia, finora, il vero vincitore della guerra in Ucraina», specifica Ansaldo, « […] non sul campo, ma nella sostanza».

Molte cose ‘turche’ ci fa sapere Ansaldo, amico personale di Orhan Pamuk, scrittore nato a Istanbul nel 1952, premio Nobel per la letteratura nel 2006, oggi tornato a vivere in patria dopo una lunga persecuzione. E questo libro lo consiglierei anche a chi si accinge a un viaggio in Turchia, per lo stile conviviale e accessibile a tutti.

Non solo Erdoğan, dunque, ma anche l’incrocio di civiltà rappresentato nei secoli da Istanbul è materia del saggio, come pure lo sono gli accadimenti e le desolazioni, descritti cronisticamente, e vissuti sul campo, del post-terremoto, e il resoconto di quanto sia oggi allarmata la popolazione, temendo un secondo sisma, inventandosi contromisure preventive anche nella vita di tutti i giorni. Altri capitoli sono dedicati ai mari turchi («una naturale estensione del suolo patrio» con 6400 chilometri di frontiere marittime contro i 2408 di quelle terrestri; alla mediazione con la Russia che ha portato alla realizzazione dei ’corridoi’ del grano, obiettivo centrato che «rappresenta il secondo asso ben giocato dalla Turchia nella nuova e grande partita sul suo spazio geopolitico allargato»; ai rapporti tesi con Finlandia e Svezia (oggi rifugio sicuro per i curdi). Un libro che si legge tutto d’un fiato, in una situazione internazionale in cui la Turchia ha assunto un ruolo a molti poco noto, ma certamente fondamentale.

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