“Tutto è stato fatto in piena regola, secondo il diritto canonico”, stabilisce monsignor Feletti, l’inquisitore del Sant’Uffizio che ha ordito il rapimento del piccolo Edgardo Mortara in Rapito, il film di Marco Bellocchio presentato in concorso a Cannes e in uscita in Italia. E il problema sta proprio lì, in questa “piena regola” dettata dal diritto canonico secondo la quale il piccolo Edgardo, battezzato furtivamente da una governante quando stava per morire in fasce, diventa “proprietà” della chiesa, benché appartenga a una famiglia ebrea.

Siamo nel 1858 e gli sgherri del papa prelevano forzosamente il bambino che ormai ha sei anni, nonostante la famiglia sia del tutto all’oscuro del battesimo. Il fatto offre il destro a Bellocchio per costruire un ritratto articolato della chiesa, il cui potere temporale è morente, ma che continua a dominare l’Italia ottocentesca. La storia intorno alla chiesa sta cambiando e il papa ammette che dieci anni prima era considerato un liberatore dai patrioti del ’48 mentre ora è considerato un rapitore. Ma lui non cede a chi vorrebbe far rientrare il piccolo Edgardo in famiglia e oppone il “Non possumus” in nome della coerenza con i principi della fede: “Io sono il papa, solo a Dio devo rispondere”.

Qui (anche qui) Bellocchio si dimostra grande maestro di direzione degli attori: il contrasto tra le alte sfere della chiesa e gli ebrei – la famiglia di Edgardo e i dirigenti romani che intervengono come mediatori facendo un gesto di sottomissione – è sancito da una recitazione che oppone chi parla a chi sentenzia, l’incertezza dei movimenti del sopraffatto e l’altera immobilità del sopraffattore.

Edgardo cresce come un cattolico, ribattezzato dal papa stesso, ha qualche cedimento quando incontra il papà e la mamma, ma resta fedele fino alla fine ai suoi nuovi valori religiosi. Li manifesterà anche al capezzale della madre morente. Dall’altra parte la famiglia mantiene la stessa fermezza, e i due mondi sono destinati a non incontrarsi. L’incontro soltanto metaforico si fa di fatto solo grazie a una risorsa cinematografica, un montaggio che alterna le preghiere degli ebrei di casa Mortara e quelle del prete che istruisce i bambini in chiesa.

Bellocchio racconta l’opposizione tra le due fedi con invenzione pungente: il papa è sbeffeggiato dalle vignette satiriche, e di notte sogna di essere circonciso da un gruppo di sconosciuti venuti al suo capezzale con un fare lugubre che fa pensare ai becchini di Pinocchio. Edgardo, per parte sua, sogna di levare i chiodi messi dagli ebrei a Cristo in croce e di vederlo scendere e vivere come un uomo libero.

Il film procede, notturno e solenne, verso un culmine in cui la storia con la S maiuscola si riverbera nella vicenda dei Mortara, facendo ritrovare Edgardo e il fratello su fronti opposti al momento della breccia di Porta Pia. Rapito ha il respiro della scrittura romanzesca e il piglio della regia che alterna momenti drammatici nei dialoghi della famiglia e grandi scene corali: memorabile tra l’altro quella della disperazione di preti e suore al momento del crollo di Roma.

Non c’è intenzione apertamente politica in questo film, che è molto più di un pamphlet o di un libro si storia. E non c’è nel film nessuna allusione all’attualità. Eppure la lettura di Bellocchio è cinematograficamente politica perché attraverso la storia del rapimento costruisce l’affresco di un potere in declino che si appiglia alla forza fisica anziché a quella morale e spirituale.

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