Il 23 maggio si ricorda il 31esimo anniversario della strage di Capaci; lo stesso accadrà per la strage di via D’Amelio, il 19 luglio. E, quindi, assisteremo alle solite facce triste di circostanza, con la solita posa delle corona d’alloro e qualche parolina di mesto ricordo. Io, i miei primi quindici anni dalla strage di Capaci, li ho trascorsi in religioso silenzio, mentre gli ultimi quindici li ho trascorsi insieme agli studenti di diverse scuole; nemmeno il lockdown mi ha impedito di collegarmi con loro.

Questo 23 maggio sarei dovuto andare in un liceo di Forlì, ma a causa dell’alluvione l’incontro è stato rinviato sine die. Avrei ricordato non solo la strage di Capaci, ma anche il mio rapporto di lavoro col dottore Giovanni Falcone. Sottolineo che conobbi il dottor Falcone, in ragione del mio servizio svolto nella Squadra mobile di Palermo. Vorrei ricordare un aneddoto occorso tra Falcone, Ninni Cassarà, il pentito Stefano Calzetta ed io.

Era una domenica dei primi mesi del 1983, quando Cassarà mi disse di prepararmi per andare insieme a Falcone ad interrogare Stefano Calzetta, tenuto nascosto all’interno della caserma di Polizia, Lungaro di Palermo. Io, Stefano Calzetta e Beppe Montana avevamo trascorso alcuni giorni d’appostamento all’interno di un anonimo furgone; appostamento culminato con l’arresto di due latitanti mafiosi. Nel corso dell’interrogatorio di Calzetta, io che ero lentissimo a scrivere a macchina, ritardavo la verbalizzazione. Ad un certo punto Falcone disse a Cassarà: “Ninni visto che hai il telefono vicino, chiama i pompieri per avvertirli che tra poco Pippo farà incendiare la macchina da scrivere per la troppa velocità”. Ecco chi era il dottor Falcone, un uomo, un magistrato che pur trattando in quel momento fatti di sangue, riusciva a non farsi coinvolgere, rimanendo distaccato.

Ci fu un momento della mia carriera che dovetti lasciare Palermo, per motivi di sicurezza; fui trasferito d’ufficio al Nord. Non incontrai più Falcone sino a quando, nel mese di ottobre del 1989, il dottor Gianni De Gennaro, convocandomi a Roma, mi chiese di assistere Falcone nell’interrogatorio di Francesco Marino Mannoia, che s’era da poco pentito. Io, conoscevo già Mannoia e la sua famiglia. Pertanto ebbi modo di rivedere di nuovo Falcone, durante gli interrogatori a Roma. Lo stesso Falcone, nel disporre le intercettazioni di alcune utenze telefoniche palermitane, mi affidò l’incarico di seguirle per carpire sfumature e dialoghi in dialetto palermitano. Dopo un paio di mesi, rientrai in sede.

Successivamente rividi il dottor Falcone, allorquando egli compì – credo sia stato l’ultimo atto prima di trasferirsi a Roma – un interrogatorio di due mafiosi di Villabate, ristretti nel carcere di Rimini. Io non ero interessato alle indagini – ero stato nel frattempo assegnato alla Digos – ma andai lo stesso a Rimini per salutarlo. Dopo l’attesa, ci ritrovammo e trascorremmo la nostra “ora d’aria” passeggiando sottobraccio nel cortile del carcere, suscitando la curiosità dell’agente di servizio sul muro di cinta.

Parlammo di tante cose e in particolare lo informai di una mia convocazione al Viminale da parte del capo della polizia Parisi, il cui argomento era Totò Riina. Ricordammo con tristezza Ninni Cassarà, Lillo, Zucchetto, Beppe Montana, Roberto Antiochia e Natale Mondo; tutti appartenenti alla mia quinta Sezione della Mobile di Palermo, assassinati da Cosa nostra. Fu l’ultima volta che vidi il dottor Giovanni Falcone.

Durante la mia attività di indagine, ricevetti numerosi encomi e un premio per l’avanzamento al grado superiore “per merito straordinario”, l’elogio a firma del direttore FBI, Robert S. Mueller III. Ma il riconoscimento che amo di più e che lascio in eredità alle mie nipotine, è: “All’ispettore Giuseppe Giordano, per il particolare contributo offerto nell’individuazione degli autori della strage di Capaci. Roma 21.12.1993. Il Direttore DIA Gianni De Gennaro”.

Quand’ero alla Dia fui incaricato dai magistrati palermitani di localizzare il punto esatto dove Cosa nostra aveva fatto – alcuni giorni prima della strage di Capaci – le prove dell’attentato. Infatti, scoprii il luogo dove era avvenuto l’esperimento. I mafiosi avevano imbottito di esplosivo una cunetta di una strada pubblica – nel territorio di Altofonte – e, dopo averla fatta saltare in aria, la ripristinarono asfaltandola.

Nel ricordare il dottor Falcone, non posso qui non rimarcare la mia contrarietà alla decisione di traslare la sua salma e quella di sua moglie Francesca Morvillo dal cimitero di Palermo: riposavano a pochi metri dalla tomba della mia famiglia. Incontrai solo una volta la dottoressa Morvillo; non conobbi i miei colleghi Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, periti nella strage di Capaci.

Concludo questo mio ricordo, ricordando le parole che mi disse il pentito Gioacchino La Barbera; fu l’ultimo mafioso a vedere in vita Falcone, Morvillo, Dicillo, Schifani e Montinaro: “Pippo avevo il compito di agganciare il corteo di Falcone e segnalarlo a Brusca. Io percorrevo la stradina parallela all’autostrada e li ho ‘affiancati’ sino a quando la morfologia della strada me lo consentì. Vidi i tuoi colleghi che ridevano tra loro. Poi, non potei più continuare e lo comunicai a Brusca”. Mi venne spontaneo chiedergli: “Scusa Gino, ma non ti è passato per la mente di salvarli, visto che stavano andando incontro a morte certa?”. “ No! Pippo, era u me travagghiu!”.

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