Come un Cantico dei cantici marino, la Strofe IX di Amers (1957) inscena due amanti che su un vascello lasciano la città degli uomini e prendono il largo in un mare di acqua e sogno, cantando l’una all’altro il proprio amore. È un brano esemplare, per felicità stilistica e unità di ispirazione, del poema drammatico ed epico in onore al mare che è Amers, nonché di St.-J. Perse tutto. Qui perfettamente vascello e letto, onde e sogno, riva e donna come mare e uomo risultano aspetti complementari di un’unitaria visione. La dilatazione descrittiva, tassonomica quasi, nutre una lode insieme alta e commossa, venendo a comporre un arabesco in cui natura e cultura si confondono. F.P.

Strofe IX – Stretti sono i vascelli…

Amanti, o tardovenuti tra i marmi ed i bronzi, nell’allungamento dei primi lumi della sera,
Amanti che tacevate in mezzo alle folle straniere,
Voi anche stasera testimonierete in onore del Mare:

I

…Stretti sono i vascelli, stretto il nostro letto,
Immensa la distesa delle acque, più vasto il nostro impero
Nelle camere chiuse del desio.

Entra l’Estate, che viene dal mare. Al mare solo noi diremo
Quali stranieri fummo alle feste cittadine, e quale astro dalle feste sottomarine
Salì un giorno al nostro letto, a odorare il letto del divino.

Invano la terra vicina ci segna la sua frontiera. Una stessa onda attraverso il mondo, la stessa onda fin da Troia
Rotola la sua anca fino a noi. Così al largo lontano da noi fu impresso un tempo questo soffio…
E il vocìo una sera fu alto nelle camere: la morte stessa, a suon di conche, non si farebbe udire!

Amate, o coppie, i vascelli, e il mare alto nelle camere.
La terra piange una sera i suoi dèi, e l’uomo va a caccia di belve rosse; le città si usurano, le donne sognano… Che sempre vi sia alla nostra porta
Quest’alba immensa chiamata mare – fior fiore d’ali e levata d’armi, amore e mare di stesso letto, amore e mare nello stesso letto –

e questo dialogo nelle camere ancora:

II

1 –
«…Amore, che tanto in alto reggi il grido della mia nascita, amore, quanto mare è in marcia incontro all’Amata! Vigna pigiata su ogni riva, beneficio di schiuma in ogni carne, e canto di bolle sulle sabbie… Omaggio alla Vivacità divina!

Tu, l’uomo avido, mi svesti: più calmo comandante che il comandante sulla sua nave. E tanta tela si disfa, e non v’è più donna che accolta. Si apre l’Estate, che vive di mare. E il cuore mio ti apre donna più fresca dell’acqua verde: semenza e linfa di dolcezza, acido mischiato a latte, sale con sangue forte, l’oro e lo iodio, sapor di rame e il suo principio di amaro – tutto il mare portato in me come nell’urna materna…

E sulla riva del mio corpo, l’uomo nato dal mare si è disteso. Si rinfreschi il volto alla fonte stessa sotto le sabbie; e gioisca, sul mio dominio, come il dio tatuato di felci maschio… Mio amore, hai sete? Donna sono alle tue labbra più nuova della sete. E il mio volto fra le tue mani come in quelle fresche del naufragio, ah! nella calda notte ti sia freschezza di mandorla e sapore d’alba, e conoscenza originaria del frutto sulla riva straniera.

Ho avuto un sogno, l’altra sera, d’isole più verdi del sogno… E i naviganti scendono a riva in cerca di un’acqua azzurra; vedono – è il riflusso – il letto rifatto delle sabbie grondanti: sprofondando il mare arborescente lascia queste pure impronte capillari, come alte palme suppliziate, o lunghe ragazze estasiate, che corica in lacrime nei loro parei e nelle trecce sciolte.

E sono figurazioni del sogno. Ma tu, l’uomo dalla fronte retta, coricato nella realtà del sogno, bevi dalla stessa bocca tonda, e sai il suo rivestimento punico: polpa di melagrana e cuore d’opunzia, fico d’Africa e frutto d’Asia… Frutti di donna, amore, sono più di frutti di mare: da me disadorna, e non dipinta, ricevi le arre dell’Estate di mare…»

*

2 –
«…Nel cuore d’uomo, solitudine. Strano, l’uomo, senza riva, accanto alla donna, rivierasca. E mare io stesso al tuo oriente, come mischiato alle tue sabbie d’oro, che vada ancora e che tardi, sulla tua sponda, nel lentissimo svolgersi dei tuoi anelli di argilla – donna che si fa e si sfa nell’onda che la genera…

E tu più casta di essere più nuda, vestita delle tue sole mani, tu non sei Vergine di alti fondi, Vittoria di bronzo o pietra bianca che si tragga, assieme all’anfora, in grandi maglie colme d’alghe dei cottimisti di mare; ma carne di donna sul mio volto, calore di donna al mio fiuto, e donna che nel suo aroma si rischiara, come la fiamma rosa fra le dita semigiunte.

E come il sale è nel grano, il mare è in te nel suo principio, la cosa in te che fu di mare, ti ha fatto questo gusto di donna felice, e accostabile… E il tuo volto è capovolto, la tua bocca è frutto da consumare, nottetempo, nel fondobarca. Libero il mio soffio sulla tua gola, e il montare ovunque delle falde del desio, come nelle maree di luna vicina, quando femmina la terra si apre al flessile mare salace, ornata di bolle fin nelle sue gore e maremme, e il mare alto nelle praterie fa il suo rumore di noria, la notte è colma di fioriture …»

Alexis Leger, alias Saint-John Perse, nasce a Point-à-Pitre (Guadalupa) nel 1887 e muore a Hyères (Francia) nel 1975. Svolge una carriera ai piani alti della diplomazia francese, prima di esiliarsi in America dal 1938 al 1957, anno in cui pubblica Amers. Riceve il Nobel per la letteratura nel 1960.

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