Oggi è la Giornata dedicata alla lotta contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, istituita nel 2004, a 14 anni dall’eliminazione dell’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali nel 1990. Tuttavia, ancora oggi le violenze omofobiche, bifobiche e transfobiche sono all’ordine del giorno e si manifestano in forme più e meno esplicite. Anche nei luoghi di lavoro, come certificato dall’Istat, sono molte le discriminazioni legate a identità di genere e orientamento sessuale. Queste dinamiche rendono evidente la forte connessione, spesso negata tra diritti civili e diritti sociali.

Secondo l’ultimo rapporto Ilga Europe sull’uguaglianza delle persone Lgbtqia+ in Europa, l’Italia è scesa dal 33 al 34esimo posto, a pari merito con Georgia e sotto Paesi come Grecia, Svizzera, Croazia, Bosnia, Albania, Slovenia, Macedonia. E su prevenzione ed educazione le cose non vanno meglio. Nelle scuole mancano percorsi educativi sulla sfera sessuoaffettiva, su identità di genere e orientamento sessuale. Inoltre, siamo tra i pochi Paesi privi di una legge contro i crimini d’odio. In generale, sul piano istituzionale, le tutele giuridiche per le persone Lgbtqia+ sono poche e i limiti sono molti: tra i vari esempi possibili si pensi alla legge sulle unioni civili, che non rispetta ancora oggi il principio di piena eguaglianza nell’accesso al matrimonio. E alle famiglie omogenitoriali messe in discussione dal governo. Un altro nodo è quello burocratico per le persone trans: dalle procedure lunghe e molto dispendiose per la rettifica del nome alle diagnosi psichiatriche obbligatorie per il riconoscimento giuridico del genere di elezione.

Solo il 10 maggio scorso, gli eurodeputati di Lega e Fdi si sono astenuti in Europa sulla ratifica alla Convenzione di Istanbul, il primo trattato internazionale legalmente vincolante sulla prevenzione e la lotta alla violenza di genere e domestica. Un gesto di opposizione giustificato col fatto che nei documenti era contenuto il termine violenza di genere e non solo violenza contro le donne. Anche alla luce di questo, l’elaborazione di riforme strutturali risultano a oggi molto difficili. Questa difficoltà si manifesta nei rapporti di forza politici, ma ha anche delle radici storiche. Ne abbiamo parlato con Vinzia Fiorino, docente di Storia contemporanea e Studi intersezionali di genere all’Università di Pisa.

Perché, secondo lei, in Italia è ancora così difficile attuare una politica realmente inclusiva per persone omosessuali, bisessuali e transgender? Quali crede che siano le origini storiche di questa tendenza? Quali, invece, le trasformazioni nella percezione sociale?
È difficile attuare politiche inclusive perché in Italia esiste un radicamento fortissimo dell’immagine della famiglia tradizionale, di impostazione cattolica e diffusa all’interno di diverse culture politiche. Questa centralità della famiglia “naturale” ha portato a maturare ostilità verso le figure che non rientrano in una sessualità “ordinaria”. Inoltre, in Italia manca una cultura del diritto soggettivo e individuale, che non ha mai attecchito, ma è stata ostacolata da una continua tendenza alla mediazione che si è giocata anche attorno al mantenimento di mattoni costitutivi dell’edificio sociale, come appunto l’immagine tradizionale della famiglia. Senz’altro, con il tempo, la percezione sociale è mutata, ma soprattutto dagli anni Settanta del Novecento e attraverso azioni dal basso e di movimento. Per quanto oggi continuino a sussistere con forza, e in modo meno minoritario di allora, queste pressioni sociali, gli equilibri politici attuali non lasciano prevedere alcuna possibilità di risposta a queste istanze.

Che ruolo ha in questo senso il concetto di famiglia all’interno della costruzione storica dell’identità nazionale?
La nazione si fonda su un’idea precisa di famiglia, di retaggio ottocentesco, che immagina la comunità nazionale come una comunità di sangue, all’interno della quale i nuclei familiari riproducono il corpo nazionale. Sono temi che sussistono da molto e che oggi sono evidentemente tornati in auge. Si pensi all’intervento di Giorgia meloni, 2 giorni fa, all’Adunata degli alpini, che ha parlato della “Patria” come la nostra “seconda mamma”.

E all’interno del fascismo? Crede che questa eredità definisca ancora la destra italiana attuale?
Certamente tutti questi elementi sono stati esasperati durante il ventennio e il governo fascista ha anche agito rendendo la famiglia protagonista di politiche specifiche che l’hanno resa oggetto di un forte investimento pubblico, portando di riflesso ad alimentare l’ostilità per tutto ciò che era percepito come diverso da questo modello di riferimento, in modo più o meno velato. Ad esempio, per quanto non ci fosse una criminalizzazione dell’omosessualità all’interno del Codice penale, gli omosessuali sono stati perseguiti e mandati al confino per il loro orientamento, ma in un modo nascosto sotto la generale accusa di dissenso politico. La destra attuale ha ereditato molto di tutto ciò, a partire dalla centralità dell’idea di famiglia tradizionale, con gli ostracismi che ne conseguono. Tutto ciò emerge altrettanto quando si parla di genitorialità e, in questa fase generale di crisi economica e demografica, il tema della famiglia tradizionale è riemerso con forza come possibile risposta per invertire questa tendenza demografica.

Crede che queste istanze evidentemente conservative delineino particolarmente la destra italiana o che, a oggi, si inseriscano in un panorama più largo di trasformazione delle destre europee e non solo?
Questa destra convive con altre destre europee all’interno del processo di globalizzazione. Paradossalmente, nonostante la maggiore apertura verso esperienze straniere e il contatto con altre aree del mondo, le crisi in atto hanno implicato un ritorno forte dei codici nazionalistici in tutte le destre occidentali.

Ci sono stati tuttavia, a suo avviso, dei passaggi giuridici storicamente rilevanti che possono conferire fiducia per il futuro?
Credo più che altro che sarebbe importante lavorare in direzione di una estensione tematica di una legge che già esiste ma non tocca i temi dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. Infatti, una legge importante fu La legge 25 giugno 1993, n. 205 – la cosiddetta legge Mancino – per sanzionare e condannare frasi, gesti, azioni e slogan aventi per scopo l’incitamento all’odio, l’incitamento alla violenza, la discriminazione e la violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. La legge punisce anche l’utilizzo di emblemi o simboli e condanna, dunque, l’apologia del fascismo. Per quanto queste siano battaglie sostanzialmente culturali e da accompagnare ad altri tipi di interventi, sarebbe importante dare un segnale di apertura al cambiamento allargando la condanna a chi discrimina persone con identità di genere e orientamento sessuale socialmente percepiti come “non conformi”. A oggi però non sembra esserci un terreno politico su cui poter lavorare e, di fatto, il Ddl Zan è stato un’altra occasione mancata.

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