È stato notato da diverse voci autorevoli, in questi giorni, che il protagonismo del governo quando si tratta di metter mano alla Costituzione è inopportuno dal punto di vista istituzionale, o almeno, diciamo così, inelegante. “Quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti”, era stata la formula di Piero Calamandrei. E si può ragionevolmente ritenere che quanto valeva per l’esercizio del potere costituente valga ancor di più per la revisione costituzionale, che del primo certamente non ha la natura illimitata, conoscendo limiti sia espressi che impliciti.

Per carità, il governo Meloni non è il primo tutt’altro che intenzionato a lasciar vuoti i suoi banchi. Ci sono illustri precedenti di governi impegnati in prima linea in procedimenti di revisioni costituzionali – il che, ultimamente, non ha portato granchè fortuna: qualcuno avverta la Presidente del Consiglio. E, pure se non ci fossero questi precedenti, inopportunità o almeno ineleganza istituzionale sono certamente cose cui l’attuale governo ci ha già abituato. Quindi, nessuno stupore. Il punto è piuttosto un altro, ed è provare ad intuire che cosa muova la nostra destra su questa strada.

Qualcuno ha scritto che le procedure aggravate che la nostra e altre Costituzioni prevedono per la revisione costituzionale sono come le corde che legavano Ulisse all’albero della nave, così che il canto delle sirene non lo trascinasse su strade senza ritorno. Perché poi, una volta che alla Costituzione c’hai messo mano, non è mica tanto facile tornare indietro: le Costituzioni aspirano all’eternità, almeno a quella ordinamentale – e allora conviene essere legati bene, prima di lanciarsi. Se il governo, invece, si lancia così tanto, viene da chiedersi quali siano le sirene al cui canto non riesce proprio a resistere.

Solo Dio conosce le intenzioni e i segreti dei cuori, per carità. Eppure, pur senza essere Dio, un certo sospetto, in una certa direzione, è provocato dalla vaghezza su cui finora si è tenuto l’esecutivo, da cui – neanche nel recente confronto con le opposizioni – è arrivata una proposta più definita (o almeno meno vaga) di una non meglio determinata pretesa alla legittimazione popolare diretta del capo del governo. È un po’ poco, evidentemente: una pretesa simile può declinarsi in una molteplicità di ipotesi, già esplorate dall’ingegneria costituzionale o ancora inedite. Alcune formule ormai son note al grande pubblico – presidenzialismo, semipresidenzialismo –; altre, dai confini più incerti, sono vagheggiate con insistenza da altre forze politiche – il sindaco d’Italia, ad esempio.

Tra queste, non risulta agli atti che il governo abbia formalizzato una definitiva preferenza, e allora il dubbio è che il canto delle sirene a trascinare il governo qui non sia tanto una consapevole opzione per una forma di governo o dell’altra, alla luce di ragioni suscettibili o meno di condivisione, quanto piuttosto l’istinto ad occupare tutto lo spazio del potere decidente, in qualunque formula questo si realizzi. D’altra parte, è iscritto nel corredo genetico della destra italiana una sorta di riflesso pavloniano che associa alla legittimazione popolare diretta un carattere (più) irrevocabile e stabile della propria quota di potere, come da investitura carismatica.

Alla destra, insomma, non interessa tanto la stabilità del governo, ma la stabilità di se stessa al governo, ed è convinta che il voto popolare glielo possa assicurare. Il resto – come strutturare questa legittimazione, in che sistema inserirla, come farla reagire con gli altri elementi del sistema – son tutte facezie da “melanconici zelatori del supercostituzionalismo”, con citazione che a qualcuno non dispiacerebbe. Ma qui i rischi sono almeno tre, allora.

Il primo attiene più direttamente al merito della revisione costituzionale che si tenterà di portare a compimento: cosa decideranno. Il secondo, non meno grave, attiene al modo in cui le nuove norme costituzionali saranno redatte: come decideranno. Non sono pochi gli esempi di norme scritte male, e il problema assume dimensioni enormi, con esiti non facilmente prevedibili, se ad essere scritte male sono norme costituzionali – che peraltro non si prestano ad essere facilmente modificate o corrette. Ed è chiaro che se il disegno di chi questa revisione scalpita per proporla non è così chiaro, c’è da stare attenti alla qualità della sua scrittura.

E poi c’è il terzo rischio, ed è che questa riforma non finisca per ottenere il risultato della fatidica governabilità. Quella di presentare la forma di governo come una sorta di “formula magica” per la stabilità politica è una operazione capziosa che merita di essere definitivamente smascherata. Ogni forma di governo, infatti, produce in concreto risultati differenti a seconda di altri rilevanti elementi di sistema con cui interagisce, primo tra tutti con la strutturazione del sistema politico e, più specificamente, partitico. Voler far credere ad ogni costo che formule di rafforzamento del governo, pur lasciando tutto il resto invariato, producano maggiore stabilità politica è niente altro che uno spudorato inganno.

Forse, insomma, non era stato poi così tanto sciocco il buon Ulisse a farsi legare ben stretto – “e se vi prego poi, se impongo che a sciogliermi abbiate, / voi con le funi allora legar mi dovete a più doppi”. Ma non tutti nascono Ulisse.

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