Un nuovo corso che permetta un “controllo per evitare l’abbandono di rifiuti tossici e qualsiasi altra attività che ponga in pericolo l’ambiente e la popolazione”. Le parole sono del generale dell’esercito Maurizio Angelo Scardino in occasione del nuovo piano di esercitazioni che sposta gli spari dal mare alle Madonie, montagne siciliane, dopo ben 64 anni. Sei decenni in cui l’ambiente è stato messo in pericolo proprio dai carri armati dell’esercito, italiano e americano, che si sono esercitati in quello che consideravano un poligono naturale, nonostante la fragilità e l’unicità del suo territorio. È la zona di Drasy, ad Agrigento, a pochi passi da Punta Bianca, territorio che si estende fino a Palma di Montechiaro (la città del Gattopardo) e che è stata dichiarata riserva naturale dalla Regione (l’iter è ancora in corso) dopo le pressioni delle associazioni ambientaliste che vogliono preservare un luogo unico.

La marna bianca che si trova a pochi passi dal luogo dove fino all’ultimo calendario di esercitazioni si allenava l’esercito, è infatti uguale alla famigerata Scala dei Turchi di Realmonte ed è stata più volte set di campagne pubblicitarie per la sua bellezza. Quando però i carri armati non sparavano verso il mare, inquinando lo specchio d’acqua. A certificare questo inquinamento è stata la procura in un fascicolo che a oggi non vede indagati ma che, in un luogo lontano dalla città, ha rilevato metalli pesanti nell’acqua, oltre a danni verificabili anche ad occhio nudo al territorio con crateri enormi in una falesia fragile spesso soggetta a crolli.

Il caso dell’inquinamento era arrivato anche alla commissione europea, portato avanti dall’eurodeputato Ignazio Corrao, e aveva portato a uno stop temporaneo dell’esercitazioni. Da quel momento e su pressione delle associazioni ambientaliste che hanno organizzato diversi sit-in per fermare l’esercito davanti l’ingresso dell’area, l’esercito ha cominciato a guardarsi attorno, chiudendo adesso un accordo con i paesi di Gangi, Nicosia e Sperlinga. L’abbandono dell’area lascia però in sospeso l’opera di bonifica del territorio in un mare che ancora oggi risulta inquinato, come certificato dalla commissione sull’uranio impoverito che è arrivata negli scorsi anni sui luoghi degli spari: “E’ clamoroso che nessuno si sia mai posto il problema di bonificare il mare verso il quale sono stati sparati migliaia e migliaia di proiettili nel corso di decenni” aveva concluso dopo la sua visita il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito, Gian Piero Scanu.

Bonifica che non è mai stata fatta anche a distanza di 6 anni da quella visita: “È assurdo che i militari siano andati via senza bonificare l’area – spiega Salvatore Matina, uno dei residenti che ha partecipato alle proteste per porre fine alle esercitazioni – per questo motivo c’è poco da festeggiare dopo 64 anni di danni ambientali. Le frane causate dalle bombe sono ancora presenti e oggi ci sono ancora i binari in cui correvano le sagome per gli spari. Noi adesso chiediamo che venga bonificata l’intera zona”. Ad un anno dalla fine delle esercitazioni, sospese nonostante la pubblicazione del calendario a causa dell’indagine sull’inquinamento, carri armati e proiettili si spostano nei tre paesi montani cui viene assicurato un controllo costante del territorio, utile anche a prevenire gli incendi e per preservare anche l’ambiente contro l’abbandono di rifiuti tossici. E gli abitanti sperano che questa promessa riguardi anche i proiettili stessi.

Immagine d’archivio

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