“Lo scudetto ce lo stiamo trezziando“, dice l’allenatore Luciano Spalletti alla vigilia del match point con l’Udinese. Per lui la festa epocale sarà quella di domenica sera, dopo la partita in casa con la Fiorentina, quando insieme ai giocatori/eroi si godrà il bagno (l’alluvione) di folla nei quartieri. E poi ci sarà l’ultimissima partita di campionato, il 4 giugno, con la consegna del titolo di campioni d’Italia. Fino ad allora non si smetterà di festeggiare, di urlare, di intonare cori, di fare caroselli e di sparare…

E meno male che erano state vietate le vendite di fuochi d’artificio. Napoli è imprevedibile, dribbla la logica e fa lo sgambetto alle ordinanze del Comune. Al fischio finale dell’arbitro è un’esplosione di botti che neanche la festa di Piedigrotta dei suoi anni migliori. Sul lungomare, a piazza dei Martiri, a piazza Plebiscito, dai balconi dei quartieri spagnoli, ogni angolo della città offre il suo spettacolo pirotecnico. Per non parlare di Forcella, che ieri mattina si è svegliata e rompendo ogni schema scaramantico, ha issato uno scudetto alto 20 metri con la scritta: “Il giorno tanto atteso“. Ora godiamoci il momento tanto desiderato.

Io c’ero anche 33 anni fa. Arrivai da New York con lo stesso spirito dell’immigrato che ritorna a casa: ero una giovane stagista all’Europeo, Gianni Perrelli era l’inviato speciale, io mi auto-inviavo. Per me quello scudetto fu il mio primo “gol” professionale. Un’unica, lunghissima tavolata nei vicoli, un’onda azzurra che accoglieva chiunque volesse unirsi ai festeggiamenti. Poi facemmo un salto sul set di Gianni Minà che da Napoli conduceva per la Rai “Notte per uno scudetto”. Oggi, appollaiato con la sua troupe da domenica scorsa sul terrazzo di palazzo Reale, Paolo Sorrentino fa sapere che girerà un film sullo scudetto. Un set spontaneo, la città ubriaca di tifo, un’uragano d’eccitazione prende forma sotto i suoi occhi.

“Napoli è un luogo di droga naturale, inganna, ammicca, finge di prostituirsi, ti acchiappa per poi lasciarti smarrito o del tutto perduto”, ricorda Tony Damascelli, grande firma dello sport. Anche lui c’era 33 anni fa. Un’invasione pacifica di gioia allora come oggi. Mi butto anche io nel delirio della piazza, per fare incetta di schiamazzi e ritornelli già virali sui social, un groviglio di ragazzi si arrampica sui lampioni e sventola le bandiere di Maradona. El pibe de oro sembra essere l’unico a compiere il miracolo di vincere lo scudetto anche da morto. Intossicati dai fumogeni, la sciarpa del Napoli funge da mascherina, la folla fa pressing, conquistiamo centimetri di strada. Anche la pizza è servita nei cartoni con il numero 10 di Maradona.

La mia strada Monte di Dio (vabbè, non sarà la mano di Dio…) è blindata, e per me è la salvezza. Nel momento in cui scrivo, ore 2:49, sento ancora il ronzio delle pale degli elicotteri sopra la mia testa, cori, strombazzi e botti di sottofondo. Tutto il mondo (o quasi) è una curva B. Ci sono più napoletani a San Paolo, Buenos Aires, Rio de Janeiro, Sidney che sotto il Vesuvio. Perfino Bruce Springesteen tifa Napoli e al concertone a Piazza Plebiscito dichiarò le sue origine napoletane da parte di madre. Perchè nulla unisce più del tifo azzurro.

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