di Paolo Di Falco

Più che la festa dei lavoratori oggi, se guardiamo al lavoro giovanile, potremmo dire che è la festa dei precari. Se c’è qualcosa con cui ognuno di noi ha a che fare nel momento in cui inizia ad addentrarsi nel mondo lavorativo quella è senz’altro la precarietà, non una semplice condizione temporanea ma quasi uno stato di vita contro cui si vanno a infrangere tutte quelle certezze incollate alla bell’e meglio durante l’esperienza scolastica.

Dopo anni di formazione e nottate di studio perse tra nozioni e ansia, nel momento in cui si riesce ad entrare all’interno di un qualsiasi contesto lavorativo si ha la sensazione di dover ricominciare tutto da zero con la consapevolezza che il proprio futuro è legato ad un contratto sottopagato a tempo determinato che, forse, potrebbe essere rinnovato oppure no. Contratti che vengono proposti come un’opportunità incredibile vista la loro flessibilità – che però poi si traduce nel doversi trovare anche un’altra occupazione per cercare di arrivare a fine mese.

Precarietà che, nella realtà, porta all’impossibilità pratica di potersi permettersi un tetto sopra la testa, all’impossibilità di poter vivere senza l’aiuto economico della propria famiglia. Secondo i dati Eurostat, nel nostro Paese un giovane tra i 15 e i 29 anni ogni quattro (poco meno del 25%) risulta a rischio povertà. Premesso che si viene considerati a rischio povertà quando il reddito disponibile è del 60% al di sotto del valore mediano nazionale, la criticità di questo dato la si capisce se lo mettiamo in relazione con quello che ci viene fornito dall’indicatore di deprivazione materiale e sociale. Quest’ultimo si riferisce a quella condizione, di cui parlavamo prima, in cui diventa difatti impossibile comprare tutti i beni di cui si avrebbe bisogno per mantenere un tenore di vita accettabile, dalla semplice connessione internet ai vestiti nuovi.

Tra i giovani italiani il tasso di deprivazione si attesta intorno al 5,6%, leggermente al di sotto della media europea che si attesta al 6,1%. Basterebbero questi due dati per mostrare l’impatto pratico della precarietà dilagante che caratterizza la maggior parte dei rapporti di lavoro giovanile, dove avere un salario adeguato alla propria prestazione è considerata un’utopia; d’altronde perché dovresti avere una retribuzione dignitosa se non hai ancora nessuna esperienza?

Ma come si può lavorare nel momento in cui nessuno ti paga quanto basta a garantirti un regime di vita dignitoso? Già l’essere sottopagati è diventato un qualcosa per cui bisogna pure ringraziare, vista la politica ampiamente diffusa in Italia degli stage non retribuiti, pratica tra l’altro condannata anche dalla risoluzione (come si sa non vincolante) dell’8 ottobre 2020 del Parlamento europeo presieduto da David Sassoli.

Partendo da questo spaccato del mercato del lavoro giovanile, fatto anche di tante sigle dietro cui si nascondono belle opportunità per cui immolarsi quasi a costo zero, si possono fare una serie di deduzioni del tutto scontate. Innanzitutto ciò che non dovrebbe sorprendere, come rilevato dal rapporto Censis-Eudaimon, è che nel decennio 2012-2022 gli occupati 15-34enni sono diminuiti del 7,6% e quelli con 35-49 anni del 14,8%, mentre i 50-64enni sono aumentati del 40,8% e quelli con 65 anni e oltre del 68,9%.

L’altra cosa di cui non ci si dovrebbe stupire è il fatto che l’instabilità lavorativa porti alla riduzione dei nuclei famigliari con il conseguente calo delle nascite, mentre qualcuno dal governo paventa la favoletta della sostituzione etnica con il rischio che poi magari qualcuno ci creda pure (basti pensare a ben undici anni di stragi di estrema destra). Non è un mistero, come quel diritto al lavoro riconosciuto dall’articolo 4 della nostra Costituzione sia l’architrave portante sui cui si regge il nostro sistema, diventato un puzzle di sussidi pensati per alimentare un modello puramente assistenzialistico del mercato del lavoro.

Ciò che si dovrebbe fare è immaginare un mondo del lavoro dove le tutele siano un diritto acquisito e non qualcosa di variabile in base al tipo di contratto; un mondo del lavoro dove la precarietà sia solamente un regime transitorio retribuito sulla base di un salario minimo fissato per legge e non uno stato permanente con un salario lasciato alla bontà del datore di lavoro; un mondo del lavoro dove i giovani non vengano visti come dei costi per la formazione di cui hanno bisogno ma come delle risorse in grado di portare idee e innovazione.

Prima di parlare di lavoro forse bisognerebbe fare in modo che questo si traduca in qualcosa degno di tale nome e non solamente in una bella illusione non retribuita.

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