Dopo essermi bombardato di tutte le stagioni di Stranger Things, tra mondi sottosopra, alieni viscidi e adolescenti coraggiosi, sono andato con Ethel a mangiarmi una bella pizza napoletana, dopo la pizza ho detto alla mia adorabile compagna: “E se andassimo a vedere l’ultimo di Nanni Moretti? Così facciamo l’intramontabile accoppiata di pizza e cinemino”.

Siamo arrivati con 30 minuti di anticipo, la cassiera ci dice che si può entrare solo cinque minuti prima della proiezione, allora passiamo il tempo su una panchina del parco, io mi stendo sulle gambe di Ethel e lei mi fa le coccole, tante carezze sulla testa nuda, e mi sciolgo come un bambino, l’aspetto materno dell’erotismo è così delizioso.

Finalmente entriamo al cinema, il cinema, il cinema vero, non Netflix. Noto subito la bellissima fotografia di Michele D’Attanasio, un film con una bella fotografia è già un bel film, come per un uomo alto si dice -altezza, mezza bellezza-. Altra cosa che noto: la recitazione di Nanni Moretti è ipnotica, antinaturalistica, un espressionismo ma minimale. Ho la sensazione che Moretti si dibatta in una sorta di incubo e questo incubo si chiama realtà. La realtà attuale di giovani che non sanno niente del comunismo, quindi a digiuno di storia, la realtà attuale dominata da piattaforme streaming come Netflix che corrompono il gusto e la cinefilia, la realtà attuale di una rappresentazione della violenza stereotipata, svuotata di senso, plasticamente insulsa, e infine la realtà attuale degli stessi rapporti di coppia dove si parla di tutto tranne che di se stessi, distratti dal superfluo e dall’evanescente.

Non è più tempo di utopie, di lotta di classe, il “gratta e vinci” ha vinto su tutte le ideologie, noi abbiamo perso, non resta che rifiugiarsi in un bel film in bianco e nero, anche se poi si resta soli come cani e si preferisce andare a letto, con il conforto di un bel dolce.

La sensazione di sentirsi soli e prigionieri di un incubo è evidenziata dalla bella scena ripresa dall’alto in cui Moretti attraversa le varie stanze di un teatro di posa, solo con se stesso, la propria rivolta, il proprio sdegno di artista. Dove è finito il cinema? Ma soprattutto: dove è finita la vita? Il tempo travolge tutto, macina ogni cosa, la memoria e la carne, la rivolta d’Ungheria è una cartolina sbiadita, la cinefilia è un esercizio di nostalgia, siamo tutti animali in gabbia, come le tigri e i leoni di un circo ungherese capitato a Roma come un meteorite storico; Moretti sente sulla propria pelle la sconfitta dell’umanità, sente la vecchiaia che lo appesantisce, che gli fa mancare il fiato mentre nuota in una piscina post palombella rossa.

Sembra di essere nella terra di Ozymandias: tutto è rovina e spiagge sconfinate di niente si estendono oltre i confini. Eppure, Nanni Moretti non si arrrende, e questo è l’aspetto commovente del suo film. Bisogna agire, reagire, contrapporsi a tutto questo sfacelo, bisogna dire “Azione!”, ma non ogni cinque anni, bisogna fare presto prima che sia troppo tardi, prima che il sol dell’avvenire si trasformi nel sol dell’avvenuto. E anche se fosse già troppo tardi, non bisogna mai cedere, ma continuare a lottare, a fare cinema, a fare vita.

L’etica è il fondamento, senza etica non si va da nessuna parte. Come ci ha insegnato la Nouvelle Vague, anche un movimento di macchina è intriso di etica (la famosa polemica sul carrello di Pontecorvo nel film Kapò), un’inquadratura è una visione del mondo, anche il cinema è uno strumento di lotta contro la dittatura dell’ignoranza e della superficialità, contro ogni dittatura, da Stalin al mondo vacuo degli apericena. Se vuoi filmare un omicidio, fallo come Kieslowski (citato da Moretti) o come Hitchcock ne Il sipario strappato, dove si percepisce la fatica della violenza e in quella fatica c’è un senso etico: uccidere un uomo non è una cosa semplice.

Oggi i registi scelgono la via comoda di un colpo alla testa e tutto è finito. Senza senso e senza cinema. Moretti cerca un conforto quasi ironico in Renzo Piano, in Corrado Augias e giustamente in Martin Scorsese, non si tratta di non rappresentare la violenza, ma di darle appunto una dimensione etica, e quindi cinematografica. Bellissima la sequenza in cui si allontana triste e avvilito dal set di un regista da “colpo in testa” e via! Viene in mente il Woody Allen di Io e Annie che cercava un appoggio culturale in Marshall McLuhan contro lo sproloquio di un intellettuale pieno di sé in fila alla cassa di un cinema. L’etica consiste proprio in questo: nell’essere pieni ma non di sé, di altri.

“La coscienza sono gli altri dentro di te” diceva Pirandello in Uno, nessuno e centomila. Se sei pieno di altri, non sei mai sazio. L’accusa di narcisismo al cinema di Moretti l’ho trovata sempre infondata. Quelle che a prima vista possono essere lette come nevrosi, idiosincrasie o ripugnanze (i sabot maledetti), in realtà sono espressione limpida di un gusto (il gusto è fatto di mille disgusti), e il gusto è sempre una forma di etica, di amore, amore per il bello, per il cinema, per la vita e per gli altri. Non a caso il film finisce fellinianamente, non un girotondo come in Otto e mezzo, ma una bella marcia “progressista”, circondato da tutti o quasi tutti gli attori del suo passato, Moretti avanza insieme a noi e ci saluta, ma non è un addio, quel saluto è un segno di lotta “Io sono ancora qui e non ho smesso di combattere”.

So già che ad alcuni critici questo film è sembrato una sorta di bigino senile di tutto il cinema di Moretti, nulla di più falso, è una adorabile e irresistibile giovinezza.

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