Negli Stati Uniti l’ultima frontiera del business fossile è il gas naturale liquefatto (Gnl). Ovvero immagazzinare in forma liquida il gas estratto, per lo più tramite fratturazione idraulica, per poi spedirlo tramite gigantesche navi in giro per il mondo. In Louisiana e in Texas ci sono ben cinque degli otto terminal di Gnl attivi al momento, altri undici sono stati approvati e altri sei aspettano il via libera. Su scala nazionale, se gli impianti proposti dovessero vedere la luce, entro un lustro su tutto il territorio statunitense si conterebbero ventisei terminal di Gnl.

Rispetto al secondo semestre del 2021, l’export di Gnl è aumentato del 12% nella prima metà del 2022, tanto che gli Usa hanno sorpassato Federazione russa e Qatar, divenendo il primo Paese esportatore al mondo. L’Italia è al 14esimo posto globale per import di gas dagli Stati Uniti nel periodo fra febbraio 2016 e settembre 2022.

Nell’area intorno alla città di Lake Charles, in Louisiana, ci sono i terminal Cameron Lng e Calcasieu Pass, ma pure una impressionante concentrazione di petrolchimici che sbuffano fumo e fiammate senza sosta. In alcuni punti lo sguardo incontra solo tubature e serbatoi, in quella che appare una delle più grandi zone di sacrificio del Paese, a tutto danno delle comunità dell’area.

Questi fenomeni esacerbano una crisi sociale che in Louisiana sembra senza fine. Il 14,20% delle famiglie dello Stato vive sotto la soglia di povertà. La media dei salari per nucleo familiare è di 52mila dollari, a fronte di un dato su scala nazionale intorno ai 70mila. La disoccupazione colpisce duro, con picchi oltre il 40%, soprattutto tra le comunità afroamericane.

Il Texas, invece, ha un reddito pro-capite ben più alto, avendo fondato buona parte del proprio sviluppo sull’industria dei combustibili fossili. Nel 2021, è stato il più grande produttore di petrolio (43%) e gas naturale (25%) degli Usa, per lo più provenienti dal Golfo del Messico e dal Bacino Permiano, dove si trova un quarto delle riserve di idrocarburi del Paese.

Una delle “capitali” dell’estrattivismo texano è Port Arthur, a metà strada tra i due più grandi e produttivi terminal di gas naturale liquefatto degli Usa: Sabine Pass e Freeport, al 2021 rispettivamente circa 35 miliardi e 19 miliardi di metri cubi di Gnl esportato.

Eppure, a Port Arthur il contesto sociale è a dir poco depresso e la situazione sanitaria molto compromessa. L’incidenza dei casi di cancro è il doppio rispetto alla media del Texas e la presenza costante di flaring (la combustione del gas naturale in eccesso estratto insieme al petrolio) dalle tre enormi torri di Sabine Pass potrebbe “avvalorare” questo dato inquietante. Il terminal è una sorta di città nella città, tanto è mastodontico. A gestirlo è Cheniere Energy e con la quale l’italiana Snam è saldamente in affari, tanto che la sta aiutando “penetrare” nel mercato balcanico tramite la messa a disposizione dei suoi impianti di Gnl.

Freeport con la guerra in Ucraina ha visto rapidamente cambiare i suoi “beneficiari”. Se prima il 70% del gas andava in Asia, ora fino al 65% arriva in Europa. L’impianto è tornato attivo dopo sei mesi di stop causati da un incidente registratosi lo scorso 8 giugno. I problemi legati alla sicurezza sono molteplici, come ci hanno raccontato gli attivisti locali.

Oltre a Snam, c’è un altro legame forte con l’Italia. Dal 2016 al 2022, infatti, la “banca di sistema” Intesa Sanpaolo ha finanziato con 2,1 miliardi di dollari tutte quelle società che gestiscono i terminal Gnl esistenti sulla Costa del Golfo e ne stanno pianificando l’espansione. 1 miliardo di dollari solamente alla già incontrata Cheniere Energy che ha in mano circa il 50% di questo business.

video dell’associazione ReCommon

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