Una condanna a 8 e 9 mesi e una provvisionale di 40mila euro da versare ai parenti della vittima in solido con il ministero della Giustizia. È la conclusione del processo di primo grado ai tre agenti del carcere Lorusso e Cotugno di Torino imputati di omicidio colposo per omessa vigilanza per la morte di Roberto Del Gaudio, il 65enne che si impiccò in carcere l’11 novembre 2019 mentre era detenuto in regime di massima sorveglianza. Ieri pomeriggio la giudice Rosanna La Rosa ha letto il dispositivo con cui ha riconosciuto la responsabilità dei tre agenti penitenziari che quella notte erano in servizio nella sala monitor, a breve distanza dal corridoio in cui si trovava la cella di Del Gaudio, sorvegliata dalle telecamere h24. Il 65enne, affetto da gravi problemi psichiatrici, si trovava in carcere da agosto per aver ucciso la moglie Brigida De Maio nel loro appartamento di corso Orbassano 255 a Torino.

Per Vittorio Cataldo e Marco Spinella i pm Francesco Pelosi e Laura Marchetti avevano chiesto dodici mesi di reclusione, mentre per Giuseppe Picone la richiesta era di 14 mesi perché la procura gli contestava anche un falso. Secondo quanto emerso dall’inchiesta e nel corso del dibattimento, Del Gaudio si suicidò impiccandosi con i pantaloni di un pigiama intorno alle 22.30 dell’11 novembre, gli agenti se ne accorsero soltanto 13 minuti dopo e solo allora vennero chiamati i soccorsi. Un ritardo che secondo la procura è costato la vita al detenuto, il quale doveva essere controllato a vista per il rischio di suicidio.

“Non c’è la prova che sia morto istantaneamente, è pur sempre l’impiccamento di una persona che rimane appoggiata per terra – ha annotato la pm Laura Marchetti nella sua requisitoria –. Già 40 minuti prima Del Gaudio si trovava con la testa sotto la coperta e faceva dei movimenti inequivocabili. Gli agenti dovevano accorgersi che era senza pigiama, un comportamento sintomatico che doveva destare allarme e spingerli a intervenire prima che si mettesse il cappio al collo”. Secondo la ricostruzione avallata dal Tribunale, il detenuto si è prima sfilato i pantaloni del pigiama restando sotto una coperta, poi se li è annodati attorno al collo a mo’ di cappio. Agli agenti, difesi dall’avvocato Marco Feno, è stato addebitato l’omicidio colposo per omessa vigilanza, una fattispecie che di solito viene contestata ai sanitari e a tutte quelle persone che, in virtù del loro ruolo, assumono una posizione di garanzia nei confronti di soggetti deboli o affidati alle loro cure. In questo caso, secondo la tesi accolta dalla giudice La Rosa, il personale penitenziario avrebbe potuto scongiurare la morte di Del Gaudio se solo lo avesse sorvegliato correttamente.

Nel processo si sono costituiti parte civile i familiari dell’uomo e il Garante nazionale per i diritti dei detenuti, rappresentati rispettivamente dagli avvocati Riccardo Magarelli e Davide Mosso. In particolare quest’ultimo ha ricordato la posizione del Garante sugli effetti personali, che dovrebbero essere tolti ai detenuti in alta sorveglianza proprio per il rischio di autolesionismo o suicidio. “Chiedo che il giudice valuti anche la posizione dei testimoni. Alcuni hanno reso dichiarazioni pacificamente menzognere, incompatibili l’una con l’altra. Una condotta forse ancora più grave di quelle tenute nell’immediatezza del fatto”, ha dichiarato invece il legale dei familiari. I 13 minuti che passano tra il nodo al collo e la morte di Del Gaudio sono rimasti in un cono d’ombra. Per la difesa degli imputati il ritardo nell’intervento deve essere ascritto alla rottura accidentale di uno dei tre monitor di sorveglianza, una circostanza che è stata al centro del dibattimento per molte udienze. Su quel dispositivo infatti è stata eseguita anche una perizia tecnica, la quale ha escluso che il danno sia stato provocato da una caduta come avevano riferito i tre agenti. Proprio in relazione a questo particolare la procura ha contestato il falso a uno di loro: per i pm lo schermo sarebbe stato danneggiato volontariamente dopo le 22.40 proprio con lo scopo di mascherare il ritardo e la condotta omissiva. Anche grazie a quel monitor, i tre dovevano vigilare su 19 detenuti del ‘Sestante’, il reparto di osservazione psichiatrica della casa circondariale di Torino. Durante il dibattimento, i pm hanno anche chiesto conto ai numerosi testimoni – in gran parte colleghi e personale dell’amministrazione penitenziaria – delle voci secondo cui i tre agenti stavano guardando la partita di calcio tra Juventus e Milan con il monitor collegato alla pay tv. Tuttavia questa circostanza, emersa anche dalle intercettazioni di un’altra inchiesta, non è stata mai acclarata né perciò contestata agli imputati. “È stata riconosciuta soltanto una colpa generica. La ricostruzione dei fatti che sosteneva l’impianto d’accusa è stata smentita nel processo”, ha dichiarato il difensore, annunciando che ricorrerà in appello.

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