Mancano tre settimane alle elezioni presidenziali in Turchia e Recep Tayyip Erdoğan vuole vincerle per portare a termine il suo piano di controllo del Paese avviato con la riforma costituzionale del 2017. Per farlo ha bisogno di eliminare qualsiasi forma di concorrenza e opposizione. Così, anche oggi si è assistito a una nuova ondata di arresti nel Paese: 110 persone sono finite in manette nell’ambito di un’operazione “antiterrorismo” presentata come un nuovo colpo al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk).

L’operazione, condotta in 21 province dello Stato anatolico, tra cui quella di Diyarbakir, a maggioranza curda, ha interessato non solo presunti miliziani, ma, secondo l’Ordine degli avvocati di Diyarbakir, anche “venti avvocati, cinque giornalisti, tre attori teatrali e un politico” e potrebbe arrivare a colpire 150 persone.

Secondo quanto riporta la tv di Stato turca Trt, le persone messe in custodia sono accusate di avere finanziato il Pkk o di avere collaborato con il gruppo curdo armato che da 40 anni combatte con l’esercito turco, con Ankara che lo considera una organizzazione terroristica. Tra gli arrestati, oltre a giornalisti ed avvocati, ci sono anche dirigenti di varie ong, come denunciato da Mlsa, associazione turca no profit che si occupa di promuovere la libertà di espressione. Secondo l’organizzazione, per 24 ore gli avvocati non avranno accesso ai dossier dell’inchiesta che ha portato all’arresto dei loro clienti.

Immediata la reazione del partito filocurdo Hdp, anch’esso colpito negli ultimi anni da ondate di arresti che ne hanno praticamente eliminato i vertici. “Avvicinandoci alle elezioni il governo ancora una volta ricorre a operazioni di arresto per il timore di perdere il potere”, ha scritto su Twitter il deputato Tayip Temel. Una reazione dovuta anche al fatto che tra gli arrestati ci sono anche membri del comitato centrale del Hdp.

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