“Sono i nazisti ad aver copiato dal fascismo, che fu il primo esperimento di ingegneria sociale volto a costruire un sistema totalitario nel Ventesimo secolo”, ricorda lo storico della mentalità Francesco Filippi, che in occasione della Festa della Liberazione è ospite dell’Anpi di Bruxelles, dove ha preso parte a una tavola rotonda sui temi del 25 aprile. “A dirlo per primo non è un testimone qualunque, ma Adolf Hitler, che nel Mein Kampf dichiara il debito nei confronti del Duce e lo rivendica come suo mentore”, spiega l’autore del bestseller Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo (ed. Bollati Boringhieri). Eppure troppo spesso, anche e soprattutto in riferimento ai venti mesi della guerra di Liberazione, il fascismo viene considerato il comprimario dei nazisti, quasi che la deposizione del Duce il 25 luglio 1943 e la messa al bando del Partito nazionale fascista da parte del governo Badoglio bastasse ad archiviare vent’anni di soprusi e violenze. Come se il peccato originale del regime fosse l’alleanza con la Germania e la sua colpa quella di essere sopravvissuto a se stesso nella Repubblica sociale di Salò. “Non è così, anzi – ribadisce Filippi – Mussolini fu a tutti gli effetti un pioniere, l’apripista del totalitarismo del ‘900”.

Filippi, molti ritengono che il razzismo sia frutto dell’alleanza con Hitler, è così?
Tutti gli europei all’inizio del Ventesimo secolo sono razzisti. La differenza tra Mussolini e gli altri rappresentanti del continente bianco è che lui è il primo leader che tematizza e costruisce a livello politico l’idea del razzismo e lo fa con politiche dirette alla costruzione di una apartheid di fatto. Come negli anni ’20 lungo il confine orientale, quando prende il potere e inizia le operazioni di deslavizzazione delle terre a Est. O quando, negli stessi anni, avvia la brutale repressione dell’elemento tedesco nelle nuove terre dell’Alto Adige. La nazionalizzazione di quei territori era già stata avviata dai governi liberali, ma lui opera in maniera scientifica, sistematizzando il razzismo di Stato a partire dalla chiusura delle scuole, dall’eliminazione della lingua e della cultura, fino alla cancellazione dell’identità con l’italianizzazione di nomi e cognomi.

Chi fu il primo a mettere nero su bianco le famose leggi razziali?
Quella che le leggi razziali italiane del 1938 siano una brutta copia imposta dai nazisti all’alleato italiano è una bufala. Al contrario, i fascisti sono i primi a legiferare in ambito razziale. Quelle del 1938 applicate in Italia sono emanazione diretta del sistema di leggi per la costruzione dell’apartheid nell’Africa orientale italiana che data 1937. Il diritto razzista italiano è totalmente made in Italy. Il fascismo nasce razzista, nasce xenofobo, nasce antidemocratico. E questo è un fatto perché fu lo stesso Mussolini a rivendicarlo.

Un altro esempio del primato fascista?
In Libia, dove l’Italia inaugurò l’uso dei campi di concentramento: la costruzione della cosiddetta “pacificazione” del Paese nordafricano fu in realtà un’operazione di pulizia etnica nei confronti delle popolazioni della regione del Fezzan e del Sud della Libia, dove il maresciallo Rodolfo Graziani, al comando in quelle aree, si guadagnò il soprannome di “macellaio del Fezzan” per i metodi brutali nella repressione della Resistenza in Tripolitania e Cirenaica. E pensare che al gerarca Graziani hanno recentemente eretto un mausoleo!

Si dice però che fu il Führer a trascinare Mussolini in guerra, falso anche questo?
Il regime non era certo restio alla guerra, è una sciocchezza pensarlo. Ci sono tonnellate di carte che parlano dell’imbarazzo creato all’alleato tedesco dalla voglia di Mussolini di entrare in guerra nonostante l’impreparazione del regio esercito. L’invasione della Jugoslavia e l’aggressione della Grecia sono anch’esse operazioni volute dal regime fascista e non da Hitler, che anzi cercò di dissuadere l’alleato, conscio com’era delle reali capacità militari italiane. Un altro esempio? La creazione di un’armata di combattenti per la cosiddetta operazione Barbarossa contro l’Unione Sovietica, quella che Mussolini definì “crociata anti-bolscevica”, fu osteggiata fino all’ultimo dai nazisti.

Nell’immaginario di molti la violenza è giustificata dai traguardi ambiziosi.
Il fascismo nasce in un clima in cui la politica europea è anche violenza, dai rivolgimenti post prima guerra mondiale in Germania e soprattutto in Russia. Il fascismo fa però un salto di qualità: elegge la violenza a sistema politico e dopo la presa del potere ne fa un monopolio arrogandosi il diritto di quel passaggio semantico fondamentale che consegna al vincitore tutte le carte e decide chi è cosa. Il regime vince nel momento in cui fascista e italiano coincidono, almeno nella sua visione, e così essere antifascisti significa essere anti-italiani. Mussolini in questo è molto chiaro e porta avanti l’idea con una macchina repressiva enorme e duratura dal punto di vista dell’impatto sociale: 20 anni. I 12 del regime nazista, compresi i 6 di guerra, non reggono il paragone. Ma l’identità tra Stato e regime ha un punto di caduta: i fallimenti dell’Italia sono tutti fallimenti del fascismo.

Cioè?
Parlo innanzitutto dei grandi fallimenti di politica sociale, compresi quelli delle politiche per la natalità che si trasformarono in farsa perché le famiglie impoverite facevano meno figli e il tasso di fertilità delle donne italiane si era ridotto di molto già prima del conflitto mondiale. Per non parlare degli stipendi di contadini e operai, scesi del 30 per cento già nel primo anno di governo fascista, e ancora delle bonifiche, del sistema pensionistico e della diminuita capacità industriale di un Paese che è virtuoso solo nel racconto che il regime ne fa, ma in verità è di cartapesta. In altre parole, il fascismo tradisce il patto che, a fronte della cessione della libertà da parte del popolo, doveva garantire sicurezza, prosperità e avvenire. Ma il regime non fu mai davvero efficiente e non riuscì a produrle.

È questo che Giacomo Matteotti aveva capito e che gli costò la vita?
Il fascismo rischiò di implodere su quel cadavere. Fino al 1924 il regime non era ancora scontato, ma Matteotti aveva già compreso che tutto si basava sul racconto di propaganda, sulle informazioni manovrate. Attenzione: finché ne denunciò la violenza, i fascisti e Mussolini in primis gli risero in faccia, perché in sostanza accusava i fascisti di fare i fascisti, cosa che a una parte non minoritaria del Paese non importava, compresa una fetta del clero e poi gli agrari e gli industriali che sostennero il governo fascista perché scongiurasse le rivolte popolari, la montante presa di coscienza delle masse che oltre a lavorare iniziavano a pensare e a trasformasi in opinione pubblica. Matteotti divenne pericoloso quando mise nero su bianco le prove che il fascismo rubava più dei governi precedenti, che era tutta fuffa dietro la quale si celava la corruzione, come quella delle tangenti che la compagnia petrolifera Sinclair Oil avrebbe pagato ai vertici del governo e che Matteotti, allora segretario del Partito socialista unitario, era pronto a denunciare alla Camera se solo gli squadristi del Duce non l’avessero assassinato. Tra le tante, una lezione che Matteotti ci ha lasciato è che il fascismo, come tutti i regimi “raccontati”, ha come suo massimo nemico la realtà.

Non tutti l’abbiamo imparata, mi pare.
Non dobbiamo dimenticare che il fascismo fu un esperimento sociale che durò vent’anni. Non possiamo credere che possa finire con la Liberazione, con la firma della pace. La comunicazione, il racconto pubblico, l’identità costruita furono un brodo di coltura efficace che coinvolse 40 milioni di italiani. Ancora oggi, quando parliamo della nostra identità, abbiamo a che fare con parole che sono state inserite nella storia del Paese attraverso l’esperimento fascista. Il termine nazione, ad esempio, è sporcato da quel passato in un modo che non ha pari in altri Paesi e questo anche per la mancata epurazione del fascismo nel secondo dopoguerra. Per raccontare se stessa, una parte dell’Italia è costretta a utilizzare parole nate e cresciute all’interno del fascismo. E fino a quando non faremo i conti con le parole che circondano il nostro passato non saremo pienamente in grado di raccontarlo nel modo giusto, anche a noi stessi.

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