Pfas, i veleni indistruttibili. Non è un caso se i comitati ecologisti di Verona, Vicenza, Padova, Schio, Legnago e Venezia hanno tenuto a Legnago una conferenza con contributi scientifici per dibattere a che punto è la termodistruzione delle sostanze perfluoroalchiliche che, a partire dallo stabilimento Miteni di Trissino, in provincia di Vicenza, hanno inquinato mezza falda che scorre nel sottosuolo del Veneto, interessando i territori di tre province e almeno 350mila abitanti. È proprio nel popoloso centro veronese che sorge un impianto di smaltimento dei Pfas, soprattutto attraverso la distruzione dei filtri di carbone utilizzati per purificare l’acqua che viene bevuta dai cittadini.

Chemviron Italia si trova a pochi passi dal paese e sta trasformando in un incubo la vita dei residenti a causa dei fumi dei trattamenti rilasciati fino a poco tempo fa da due camini. Ora è in funzione un solo camino, 24 ore su 24, perché il secondo è stato bloccato a seguito di un intervento dei carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Treviso, attivati dalle denunce provenienti dai residenti, che lamentavano fumi e rumori. I militari del Noe avevano chiesto nuovi accertamenti ad Arpav, l’agenzia regionale per l’ambiente, e avevano segnalato la mancanza di controlli periodici di biomonitoraggio per le sostanze Pfas sui lavoratori. L’azienda aveva replicato che le emissioni erano nella norma e che i dipendenti non sono esposti a rischi per la loro salute. Ma a fine dicembre, dopo aver ricevuto i dati Arpav, il sindaco Graziano Lorenzetti ha inibito l’utilizzo di una linea di lavorazione che portava i fumi al camino E3, praticamente quella che si occupa della rigenerazione dei carboni esausti contaminati da Pfas. Lo stabilimento, che fu visitato anche dal rappresentante delle Nazioni Unite che un anno e mezzo fa si occupò dei Pfas in Veneto, è il terminale di una distruzione imperfetta o impossibile dei Pfas.

Aprendo la conferenza di Legnago, Alberto Peruffo, di PfasLand, ha ricordato come la Miteni sia in fase di smantellamento, ma la bonifica non sia stata ancora fatta e ha posto l’interrogativo cruciale di come sia possibile eliminare i terribili Pfas dall’ambiente, per evitare che vengano assorbite dall’organismo umano, da cui non vengono più espulse. Sara Valsecchi, del CNR e dell’Istituto di ricerca sulle Acque, ha descritto un circolo vizioso, visto che gli impianti di trattamento finiscono per scaricare i residui nelle acque, i Pfas contenuti nelle sostanze conferite in discarica non spariscono e gli inceneritori rimettono le scorie in atmosfera, attraverso i fumi. Vitalia Murgia, dell’Associazione Medici per l’Ambiente (Isde) ha analizzato le tecniche adottate per arrivare a una conclusione: le tecnologie di “non combustione” (meccanico-chimiche, ossidazione elettrochimica…) non costituiscono una soluzione efficace, mentre quelle basate sul calore (pirolisi e gassificazione) hanno una efficienza di rimozione che può andare dall’83 al 99,9 per cento. Eppure anche queste ultime tecniche lasciano pesanti interrogativi non rassicurando sulla possibile trasformazione dei Pfas stessi o sul permanere nelle emissioni atmosferiche. “Anche l’incenerimento inquina, perché riduce la massa dei fanghi e produce energia termica, ma la cenere residua deve comunque essere smaltita e diventa un rifiuto tossico. Se la combustione è incompleta c’è il rischio di odori ed emissioni di ossidi di azoto, tetrafluorometano e frazioni di Pfas”.

Stefano Polesello è uno dei ricercatori Cnr-Isra che dieci anni fa scoprirono che dai rubinetti di Lonigo (a 30 chilometri da Trissino) usciva acqua inquinata dai Pfas. Anche lui ha spiegato che utilizzando i sistemi di assorbimento e filtrazione (carboni attivi, resine, membrane, osmosi inversa…) si finisce solo per spostare i Pfas. “E dopo? Finora il sistema usato è quello di riportare i solidi in una discarica e lì si deve ricominciare il ciclo, oppure si riportano i liquidi in un depuratore e anche lì si ricomincia la procedura. La distruzione completa, invece, si ottiene quando la molecola di Pfas viene mineralizzata, con la rottura dei legami chimici, con formazione di acqua, diossido di carbonio e acido fluoridrico”. Come ottenerla? “Con un sistema di termodistruzione a temperature alte dai 700 ai 1000 gradi. In tre fasi: si fa evaporare la sostanza o il liquido, poi si decompongono le molecole riducendole in molecole più piccole, infine si ottiene la mineralizzazione”. Non è finita. La distruzione termica ideale, in un impianto, dovrebbe avere due fasi, condotte in due celle distinte: “Il gas va mantenuto in condizioni di 700 gradi in un forno per la volatilizzazione completa dei Pfas. L’ulteriore gas di scarico va introdotto in un post-combustore ad alte temperature costanti a circa 1.000 gradi”. Ma anche le emissioni finali dei camini riservano problemi e vanno controllate, per evitare che diffondano in tutta la zona circostante “particolato fine carbonioso” o sottoprodotti di combustione. E c’è pure il rischio che le ciminiere si trasformino in giganteschi aerosol che diffondono i vapori dei Pfas.

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