di Franco Failli

Qualche giorno fa l’intelligenza artificiale è balzata in primo piano nella cronaca a causa di un annuncio davvero insolito: una grande quantità di persone, autorevoli o potenti, o entrambe le cose, ha dichiarato che sarebbe molto opportuno fermare le ricerche sull’intelligenza artificiale perché stiamo lavorando come apprendisti stregoni a un qualcosa che potrebbe provocare la fine del mondo come lo conosciamo, e in particolare causare la fine del genere umano.

Non si tratta di un evento del tutto nuovo, in realtà, dato che anche all’epoca degli esperimenti diretti a studiare il bosone di Higgs al CERN di Ginevra si disse che al centro della Terra si sarebbe aperto un buco nero che avrebbe inghiottito tutto il pianeta e oltre. E anche all’epoca, a considerare questa spiacevole possibilità non erano quattro amici al bar, ma addirittura il grande fisico Stephen Hawking.

Ma si direbbe che l’appello non abbia avuto grande eco. Forse perché tutti si sono convinti che in realtà si trattava di un tentativo per rallentare imprese concorrenti, o forse perché l’intelligenza artificiale è per molti una vecchia conoscenza, almeno sul piano fantastico, che però potrebbe aver fatto breccia nell’immaginario collettivo creando un senso di abitudine. Da decenni infatti siamo abituati a pensare che i robot potrebbero diventare dei compagni di percorso, grazie alle opere letterarie di Isaac Asimov che raccontò in modo affascinante di cervelli positronici e di pensiero robotico. Addirittura introdusse la psicologia robotica, della quale era alfiere principale la dottoressa Susan Calvin della US Robots and Mechanical Men Corp.

Ma oggi, in questa realtà di interlocutori algoritmici ai quali è possibile porre, andando semplicemente in rete, le domande più complesse, o più stupide, come si sono concretizzate queste anticipazioni? Nessuna previsione, anche quelle che miravano a indovinare davvero il futuro, ha mai colto esattamente nel segno. Quindi la questione principale non è quella. Mi pare che la differenza davvero fondamentale non stia dei dettagli, ma nel paradigma di base, che Asimov aveva preso a fondamento della natura robotica, che quindi diventava il motore dei tantissimi intrecci narrativi che riuscì così a costruire. Parlo delle tre leggi della robotica, cioè delle tre leggi alla base dell’esistenza stessa del cervello positronico e quindi dell’intelligenza artificiale, che si trovano ovviamente anche citate su Wikipedia:

Prima Legge: un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.
Seconda Legge: un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non vadano in contrasto alla Prima Legge.
Terza Legge: un robot deve proteggere la propria esistenza, purché la salvaguardia di essa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.

Ovviamente tali leggi erano impresse nella mente positronica dei robot con una forza decrescente, dalla prima alla terza. Ma nella intelligenza artificiale così come si è concretizzata negli anni ’20 di questo terzo millennio, questi coreografici e rassicuranti punti fermi sono inclusi o no? Nessuno ce lo ha mai detto esplicitamente, ma la sensazione è che la risposta giusta sia negativa.

Ma se è vero che la natura imita l’arte, non sarebbe il caso che per una volta la scienza e la tecnica prendessero ispirazione dalla letteratura? Forse l’appello alla prudenza avrebbe potuto essere meno generico e più incisivo se avesse chiesto esplicitamente che la vera intelligenza – oggi esistente – artificiale fosse resa intrinsecamente meno pericolosa grazie all’inclusione in essa delle vecchie care tre leggi della robotica. Ma forse la vera chiave per dormire sonni tranquilli è un’altra: quando mai l’intelligenza, qualsiasi tipo di intelligenza, ha dominato il mondo?

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