Possiedono le brezze della Liguria le pagine di Marino Magliani, e la vastità del mare – anche dei suoi abissi. In particolare il suo nuovo, scintillante romanzo dal titolo Il bambino e le isole (un sogno di Calvino) edito da 66Thand2nd; evoca tra l’altro, con leggerezza calviniana, una figura tragica e geniale, quella di Walter Benjamin, intellettuale tedesco – affezionato a Sanremo – che nel 1940 si suicidò sulla frontiera franco-spagnola, a due passi dalla libertà.

In queste settimane Benjamin è tra i protagonisti di una mediocre serie tv, Transatlantic (Netflix), che banalizza Marsiglia e gli esuli salvati dai nazifascisti grazie al giornalista americano Varian Fry. Li rende poco più che bozzetti; meglio, molto meglio allora guardare il film Varian’s War con William Hurt (2001), o il documentario che gli venne dedicato; meglio immergersi nella lettura de Il bambino e le isole, evocativo come solo la vera letteratura sa essere.

Il romanzo di Magliani è “flanerismo ferroviario”, omaggia la Liguria sofferente, muta, aspra. Quella dell’uliveto, non della ridanciana costa. È un viaggio lungo i binari, a scoprire la terra da Capo Mele ad Alassio, da Albenga fin verso Ponente, Oneglia e Porto Maurizio e infine ancora a Sanremo, per lo struggente incontro dell’io narrante con la madre.

Pepite in ogni pagina: la mente vaga in quei posti davanti al mare, tra personaggi veri e immaginari, come vagabondi arpiniani alla Domingo o Ussari alla Giono. In principio fu un desiderio, quello di Duilio Cossu, amico sanremese di Italo Calvino: voleva che lo scrittore raccontasse le avventure di un bambino che gioca a pallone nei carruggi di Sanremo. Il romanziere non lo fece mai e l’ha fatto Magliani, nel centenario della nascita di Calvino.

Il bambino e le isole è una storia onirica ed emotiva, picaresca come le nostre infanzie vintage, che corteggiavano il mistero. Racconta di come il mite e geniale Benjamin sia giunto a Sanremo, ormai al tramonto dell’esistenza, con una valigia di libri illustrati. Nella città delle palme incontrerà, nella finzione, un ragazzino curioso, Italo Calvino, cui vorrebbe far scrivere la storia di un bambino e del suo pallone che si perde tra i vicoli, che rimbalza oltre i binari della ferrovia e suscita un dilemma: disubbidire alla madre e non attraversare i binari o andare avanti, rinunciando a un bene prezioso? Ogni scrittore conosce la risposta, si va: anche se Walter e Italo non si rivedranno mai più, non resta che seguire i binari, i mille misteriosi sentieri che aprono all’avventura. Caminante, no hay camino, se hace camino al andar. Non basta una vita, per un viaggio del genere.

Il racconto è un felice vagare d’istinto, attraverso le mille sfumature e i sentori di un’avventura infantile, nella terra di Biamonti e Conte, di Nico Orengo: non la Liguria costiera, dei palmizi e dei cartelloni pubblicitari ma nell’entroterra, che sa di Provenza, di tetti alla Jean Giono, di ussari, patria rocciosa che esiste senza le menzogne del mare estivo. Magliani, d’altra parte, si dice da sempre abituato ai profondi fondovalle, alla negazione del mare.

“Era una Liguria favolosa di sapori – scriveva Nico Orengo, del quale con molta nostalgia ricordo l’amicizia – di fico polveroso e gelsomino stordente, di buganvillea e cappero, di garofano, calendula e rose, mirto e rosmarino. Una Liguria dove per le strade camminavano dèi. […] Una Liguria che si è persa nel gusto medio dell’Italia di massa, televisiva, dall’identità incerta, fluttuante in tutto meno che nella volontà al cemento”.

La Liguria della Mortola e del Premio Hanbury, di Libereso Guglielmi, giardiniere anarchico allievo di Mario Calvino, padre di Italo. E della natura intatta: “Tutto quello che vedi da Dolcedo, Ripalta, Asinelli e Isolalunga – dice il protagonista di un altro romanzo di Magliani, Prima che lo dicano gli altri (Chiarelettere) – e fin qui e poi fin giù al mare, un giorno sarà una scalinata di case”.

È la speculazione edilizia, sono le “selve di cemento” che, come diceva Biamonti, “fanno male agli occhi”. Magliani sceglie lo sguardo del sognatore, come fece Giono quando gli costruirono un condominio davanti, a occultare gli amati tetti su cui correva l’Ussaro: la moglie mi raccontò, a Manosque, che girò la scrivania verso la montagna.

Marino sa di cosa stiamo parlando, lui che vive in Olanda, quasi esiliato sulle rive di un plat pays che però gli consente di scrivere. Pellegrino e camminatore malinconico in Liguria – la malinconia è la cifra della poesia – Magliani interroga l’Assoluto attraverso collane di ragni d’inchiostro, ben sapendo che non risponderà e che bisogna continuare a cercarlo.

Esule sempre, come quelli di Sanary-sur-Mer, vicino a Tolone, dove con l’ascesa del nazismo si rifugiarono scrittori e intellettuali. Fra le ville, al tiepido sole di un bar sul porticciolo, sfilano ancora i fantasmi di allora: Brecht, Thomas Mann, Joseph Roth, Arnold e Stefan Zweig, Franz Werfel e la moglie Alma Mahler, vedova di Gustav Mahler, Lion Feuchtwanger. Sanary vide anche Jean Cocteau e Aldous Huxley, che a Villa Huxley scrisse Il mondo nuovo.

Riecheggiano le loro parole, quelle di Hermann Kesten, che ricordano certi bar davanti al mare: “In esilio i caffè diventano casa e paese natale, chiesa e parlamento, deserto e campo di battaglia, culla e cimitero di illusioni. L’esilio rende solitari, uccide. E tuttavia ridà vita e nuove forze. In esilio, il caffè diviene il solo luogo di raduno permanente. Sono stato seduto in un caffè, in una dozzina di terre d’esilio, ed era sempre lo stesso caffè, in riva al mare, tra le montagne, a Londra, a Parigi o nelle vie di Amsterdam, in mezzo ai conventi di Bruges. Ero seduto al caffè dell’esilio e scrivevo”.

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