Un signore avanza a passo svelto proprio al centro di una stradina di campagna. “Mannaia a me!” ripete avvolto nella sua tuta gialla e blu. “Era un ‘ngorbu facile e l’ho sbajjato. Mi sono giocato la vittoria, mannaia!”. È un’ammissione di colpa che contiene un rimpianto sconfinato. Perché il suo sogno di poter finalmente infilare al collo una medaglia si è impantanato sul ciglio di una curva qualche metro più avanti. Sì, perché domenica 2 aprile più di cinquecento atleti si sono sfidati nella Coppa Italia di Ruzzola a squadre, un gioco desueto e a rischio estinzione riconosciuto dal Coni e protetto dalla Figest, la Federazione Italiana Giochi e Sport Tradizionali. A ospitare la competizione sono state le lingue d’asfalto del Comune di Corridonia, un paese in provincia di Macerata di neanche 15mila cuori che non intende solo rilanciare il proprio turismo, ma che vuole riscrivere la Storia. Secondo una teoria portata avanti da alcuni storici e professori universitari, infatti, la chiesa di San Claudio al Chienti di Corridonia sarebbe la vera Cappella Palatina di Aquisgrana. E, di conseguenza, il complesso residenziale fatto costruire da Carlo Magno si troverebbe nelle campagne marchigiane e non nella cittadina tedesca di Aachen. È un’ipotesi che, se confermata, potrebbe stravolgere il concetto di Europa che si è formato con l’avvicendarsi dei secoli.

Ma in attesa di scombussolare il corso dell’ultimo millennio, la nuova giunta comunale ha deciso di riallacciare passato e presente nel tentativo di non veder dilapidato un patrimonio tradizionale importante. Perché la ruzzola è un gioco antico e popolare, uno sport praticato già nell’antica Roma (anche se qualcuno giura che risalga addirittura all’epoca etrusca) e che negli ultimi decenni è stato prima guardato con sospetto a causa della sua estrazione più che umile e poi minacciato da quel processo di inurbamento che ha tramutato paesi interi in borghi fantasma. La passione per il gioco è sopravvissuta ai processori sempre più potenti e alla grafica sempre più realistica delle console di gioco, ma ha creato una spaccatura fra i praticanti. L’età media di chi lancia è salita enormemente. E trovare nuove reclute è molto difficile. Per far crescere la considerazione dell’intero movimento nel 2017 la Figest ha emanato un’aggiunta al regolamento tradizionale. E secondo qualcuno si è trattato di un vero e proprio giro di vite. Niente più mise stravaganti. La Federazione ha stabilito che per gareggiare è necessario indossare la tuta della propria società di appartenenza. Pena la squalifica. E soprattutto sono state proibite le bestemmie. Sembra un eccesso di zelo, ma dopo qualche lancio il motivo diventa chiaro. L’imprecazione è una componente quasi imprescindibile del gioco. Perché la ruzzola a squadre è uno sport crudele e frustrante. È il destino individuale che si fonde con quello collettivo, in una rincorsa continua dove l’errore più banale di un singolo rischia di minare il risultato del gruppo. Perché anche la tecnica più solida può essere sabotata dalla sfortuna, dal manto stradale irregolare o da un acquazzone improvviso. “La cosa che ti fa andare fuori di testa – spiega un giocatore prima del suo lancio – è che tu puoi fare il lancio migliore di sempre e poi, nel turno successivo, ti viene fuori una schifezza incredibile“.

Il calendario della Coppa Italia di domenica è piuttosto fitto. Così l’appuntamento per le eliminatorie è fissato per la mattina presto. Dopo aver fatto colazione tutti assieme e aver completato le formalità di iscrizione, alle otto le oltre settanta squadre (divise in tre categorie in base alla loro esperienza) sono già sparpagliate lungo le tre strade provinciali che per un giorno si sono trasformate in campo da gioco. Il funzionamento è semplice ma non per questo banale. Ogni squadra è composta da cinque giocatori più un neofita. Quando ognuno di loro ha lanciato la ruzzola si completa un gioco. Il turno successivo parte dal punto di arrivo più lontano del disco di legno. E al termine del decimo gioco vince la squadra che ha percorso più strada.

Il primo dato singolare è che non esiste una tecnica di lancio universalmente riconosciuta. C’è chi assume la posa del discobolo, chi mulina le braccia, chi prende una lunga rincorsa e chi effettua qualche passetto sincopato. Qualche decina di metri più avanti un compagno di squadra si posiziona su una porzione di strada e inizia a urlare indicazioni. Il lanciatore prova a eseguire, ma spesso le esclamazioni di disappunto arrivano molto prima di vedere dove si ferma effettivamente la ruzzola. Sull’asfalto si avanza velocemente. Di tanto in tanto i giocatori posizionati all’inizio o alla fine del capannello si sbracciano e urlano: “Macchina in arrivo!”. Così tutti gli altri si fermano e si spostano per far passare i veicoli, ricevendo in cambio uno sguardo stupito e perplesso da parte del conducente. È una scena che riporta indietro agli anni Settanta e Ottanta. E che racconta alla perfezione quel carattere ingenuo che è ancora la cifra di questo sport.

Una parte considerevole del tempo di gioco viene spesa per cercare le ruzzole che schizzano via dalla strada. E visto che via Crocefisso a Corridonia taglia canali di irrigazione, campi coltivati, zone di terra dissodata e cespugli di rovi, a volte l’operazione è più difficile del previsto. Spesso qualcuno si aiuta con una piccola roncola. Ma a volte non basta. Durante una delle prime partite il gioco viene interrotto per cercare un disco che è volato nell’erba alta. Dodici uomini si affannano a rintracciarla con i polpacci affondati nel verde. Una signora passa e grida: “Oh ma che fate? Cercate bisce?”. Qualcuno prova a spiegarle che si tratta della Coppa Italia di ruzzola. Ma senza riuscire a essere poi troppo convincente. La mattina si consuma in un lampo. Fra esultanze misurate e imprecazioni smisurate. L’unico incidente riguarda una ruzzola che è decollata per qualche metro fino a rompere il lunotto di una macchina parcheggiata. A mezzogiorno e mezzo tutti gli atleti sono già seduti fra le lunghe tavolate di un ristorante. Vincitori e vinti si scambiano sorrisi e sfottò. Si rincuora chi ha perso, si applaude chi è ancora in gara. All’uscita il presidente della Specialità Ruzzola Mauro Sabatini è raggiante. “La mia squadra è stata eliminata – dice – ma almeno chi ci ha battuto ha schierato un esordiente. Significa tanto per questo sport”. E anche per Corridonia, che in un giorno ha accolto 500 turisti provenienti da tutta Italia. È un volano importante. “È stato un evento sportivo a costo zero per Comune – spiega Matteo Grassetti, giovanissimo assessore allo Sport di Corridonia – abbiamo promosso il territorio e valorizzato la tradizione. La Coppa Italia è stata un volano per le attività locali che hanno accolto gli atleti. Ma c’è anche un altro dato importante. Ed è il valore sociale dell’evento, che ha avvicinato generazioni molto diverse”.

Alle 14.30 partono le tre finali di categoria. E molti di quelli che hanno perso restano a fare il tifo per chi è ancora in gara. È allora che il pomeriggio diventa uno scrigno di storie personali. Proprio come per Alessandro, 37 anni, un ragazzo che ha iniziato a giocare da bambino nelle strade di Nocera Umbra e che è arrivato a Corridonia per inseguire il trofeo tricolore: “La cosa che mi fa arrabbiare è che siamo usciti alla seconda eliminatoria perché abbiamo sbagliato il tiro di più semplice di tutti“. “Dopo quello abbiamo sempre dovuto inseguire”, spiega. Ognuno di loro ha un aneddoto da raccontare. Perché c’è sempre strato un tramite, una persona che è riuscita a travasare la propria passione per la ruzzola in un amico più giovane. È stato così anche per un altro Alessandro, 20 anni, che ha iniziato a giocare per “colpa” dello zio e che ora sente il bisogno di continuare per passare più tempo possibile all’aria aperta. “Per me la ruzzola è meglio della Playstation – assicura – qui riesco a spegnere il cervello“.

Per qualcuno l’amore per il gioco ha a che fare con il concetto di eredità. “Ho iniziato a giocare perché era lo sport di mio padre – dice un altro Alessandro ancora – Poi per 20 anni ho giocato a calcetto a livello agonistico. La mia parabola si chiuderà con le bocce. È scritto!”. La storia più bella arriva da una delle squadre finaliste. Nella Ar2022 di Ostra Vetere giocano Sauro e Diego. Sono padre e figlio. E grazie allo sport hanno aumentato la propria prossimità affettiva. “Io lavoravo nel settore delle calzature, a Chanel a Teramo – spiega l’uomo – Per un bel po’ ho visto mio figlio un giorno solo a settimana. Sono tornato perché serviva un padre”. Poi Sauro ha iniziato a tirare per fare un favore al presidente e non ha più smesso. Ora Diego ha 13 anni e non vuole neanche sentir parlare di lasciar perdere. La loro squadra arriva all’ultimo gioco con la vittoria in tasca. “Diego tira tu – dice il padre – basta che superi quel picchetto e abbiamo vinto. Ti prendiamo in braccio e ti lanciamo in aria!”. Il ragazzo ci prova, ma la ruzzola esce di un paio di centimetri. “Non fa niente”, dice il padre posandogli una mano sulla spalla. Poi Sauro prende il suo disco e chiude la partita. La loro squadra alza al cielo la Coppa Italia di ruzzola Categoria B. Ma padre e figlio la loro vittoria l’hanno centrata molto tempo prima.

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