Sostiene Giorgia Meloni di “non essere stata fortunata” a entrare a Palazzo Chigi in questo frangente storico. Il motivo? “Delle volte cerchi di affrontare un problema e se ne apre un altro che è ancora più grande“, ha spiegato la presidente del consiglio a Villa Malta, presentando l’ultimo volume di padre Antonio Spadaro. Parole che avranno forse suscitato qualche perplessità tra prelati e potenti d’Oltretevere. Cosa si aspettava Meloni? Che guidare il governo di un Paese complesso come l’Italia fosse un incarico estraneo alle rogne? Sarà forse per questa convinzione se, poco prima, la leader di Fdi era arrivata a sostenere di stare guidando l’Italia “nel suo momento forse più complesso dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale“. Un’affermazione abbastanza netta che avrà fatto alzare qualche sopracciglio nella sede de La Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti diretta proprio da Spadaro: ma davvero Meloni è convinta di guidare il Paese nella fase più complessa dalla fine della Seconda guerra mondiale? Che dire allora di Alcide De Gasperi, che ha gestito la transizione post bellica, la nascita della Repubblica e poi la ricostruzione di una Nazione praticamente distrutta dal conflitto?

Certo, i sostenitori della premier faranno notare che Meloni deve gestire l’emergenza rappresentata dalla guerra in Ucraina. Ma è innegabile che si tratta di una condizione meno complessa rispetto a quella toccata a Mario Draghi, a Palazzo Chigi mentre i russi marciavano per invadere il suolo ucraino. Senza considerare che prima della guerra, l’esecutivo di Giuseppe Conte ha dovuto gestire l’esplosione della pandemia, un’emergenza sconosciuta in epoca moderna. I meloniani, però, potrebbero puntare il dito sui dati economici: l’esecutivo di centrodestra è entrato in carica quando l’inflazione ha raggiunto livelli mai toccati negli ultimi anni.

Ma allora cosa doveva dire Bettino Craxi, entrato a Palazzo Chigi nel 1983, con l’inflazione quasi a quota 15%, quattro punti in più del dato attuale? E sempre per restare in ambito economico, come dimenticare il governo di Giuliano Amato? Quell’esecutivo dovette affrontare una devastante crisi economica, con la famosa manovra “lacrime e sangue” da 93mila miliardi di lire, che prevedeva il famigerato prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti. E poi la svalutazione della Lira, con l’uscita dal Sistema monetario europeo. L’allora numero 2 del Partito socialista era il presidente del consiglio ai tempi della strage di via d’Amelio, mentre le indagini su Tangentopoli inondavano il Parlamento di richieste di autorizzazione a procedere, che provocarono il passo indietro di diversi ministri. Il suo successore, Carlo Azeglio Ciampi, ricevette le dimissioni da ben quattro componenti del suo esecutivo (i Ds Augusto Barbera, Vincenzo Visco, Luigi Berlinguer e il Verde Francesco Rutelli) appena dieci ore dopo il giuramento, per protesta contro il voto della Camera che aveva respinte due richieste di autorizzazione a procedere (su sei) nei confronti di Bettino Craxi, accusato di corruzione. C’era Ciampi al governo quando, in contemporanea alle bombe di Milano e Roma del luglio ’93, i centralini di Palazzo Chigi avevano smesso di funzionare: il futuro presidente della Repubblica confidò anni dopo di aver temuto un colpo di Stato.

Una situazione nettamente peggiore di quella attuale. Senza considerare che il governo Meloni poteva ricevere in dote dati economici molto peggiori: per esempio il nostro Paese poteva già essere entrato in recessione, cosa non avvenuta fino a questo momento. Poche settimane fa, tra l’altro, l’Unione europea ha rivisto al rialzo le stime del Pil italiano, che nel 2023 è dato in crescita di quasi un punto. Come dire: le cose non andranno benissimo, ma potevano andare pure peggio. Eppure Meloni è sembrata particolarmente determinata quando ha definito quello attuale come il periodo più complesso dalla fine della Seconda guerra mondiale. Chissà, forse stava pensando all’emergenza energetica, scatenata dalla guerra in Ucraina. Guardando al passato, però, si può certamente dire che ci sono stati presidenti più sfigati della leader di Fdi. Andò molto peggio, per esempio, a Mariano Rumor, il presidente del consiglio che nel 1973 dovette varare un piano nazionale di austerity per il risparmio energetico a seguito della crisi scatenata dalla guerra del Kippur: venne vietato di girare in auto la domenica, venne imposta la fine anticipata dei programmi televisivi e venne ridotta l’illuminazione stradale.

Rumor non è l’unico premier più sfortunato di Meloni. Nel 1964 il primo esecutivo guidato da Aldo Moro cadde anche perché l’allora presidente della Repubblica, Antonio Segni, vedeva in quella maggioranza – la prima di centrosinistra della storia repubblicana – presunti rischi di destabilizzazione democratica. Era il periodo oscurso del piano Solo, il progetto di golpe del generale Giovanni De Lorenzo: non si sa quanto avesse intuito Moro, visto che quelle trame eversive saranno rivelate solo tre anni dopo dal settimanale L’Espresso. È un fatto, però, che lo statista della Dc riuscì a formare il suo secondo governo solo dopo che il Psi accettò di ridimensionare i suoi programmi riformatori. Pochi anni prima un altro sostenitore del centrosinistra come Ferdinando Tambroni si trovò a guidare un esecutivo che si reggeva sui voti fondamentali del Movimento sociale. Nel 1960 convocazione del congresso del partito di estrema destra a Genova, città decorata con la Medaglia d’oro della Resistenza, porto la sinistra a scendere in piazza, provocando violenti scontri con le forze dell’ordine. Le manifestazioni si diffusero in varie parti d’Italia e dopo alcune settimane Tambroni fu costretto alle dimissioni.

Una situazione incandescente che era solo il prequel del periodo successivo, passato alla storia come gli anni di piombo: stragi di matrice terroristica – da piazza Fontana in poi – puntellarono un periodo di grande instabilità politica ed economica. Dal 1960 al 1978 si alternarono al potere 17 governi diversi, il diciottesimo era guidato da Giulio Andreotti, che si trovò a giurare nelle stesse ore in cui le Brigate rosse rapivano Moro. Il divo era il capo dell’esecutivo che gestì tutta la fase del rapimento, tenendo la famosa linea della fermezza che porterà poi i terroristi a uccidere il presidente della Dc. Quello era il quarto governo guidato da Andreotti, che in seguito entrerà a Palazzo Chigi altre tre volte. L’ultima risale al 1992, nei mesi in cui stava esplodendo Tangentopoli e Giovanni Falcone veniva ucciso nella strage di Capaci: non un grande periodo per fare il presidente del consiglio. Per qualche motivo ad Andreotti è spesso capitato di guidare il Paese nei suoi momenti più drammatici. Questa, però, è un’altra storia.

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