Oggi non possiamo celebrare l’8 marzo senza ricordare quello che è accaduto all’alba del 26 febbraio scorso, al largo di Steccato di Cutro: il naufragio di un barcone carico di profughi è diventato il naufragio della nostra coscienza. Non si può mettere da parte un pensiero che ci insegue da giorni: la morte a pochi metri dalla riva di 70 persone, tra cui una ventina di bambini e bambine. La vittima più giovane era adagiata in una bara bianca nel PalaMilone di Crotone, contrassegnata con la sigla KR-46-M0, per indicare la 46esima vittima recuperata, un bambino che non aveva ancora un anno di vita.

Per giorni il mare ha continuato a restituire corpi ma sono ancora molti i dispersi, almeno una trentina. Secondo i superstiti il barcone trasportava 180 persone o forse erano molti di più. Solo 81 sono riusciti a nuotare e a raggiungere la riva.

“Si potevano salvare”; lo abbiamo sentito ripetere più volte nella testimonianza toccante di Vincenzo Luciano, il pescatore che all’alba ha cercato di prestare soccorso sulla spiaggia e che, facendosi luce con un cellulare, ha sottratto all’acqua il corpo senza vita di un bambino di 2 anni; lo abbiamo sentito dire da Orlando Amodeo, medico ed ex dirigente della polizia di Stato: “Quei migranti potevano essere salvati. Non è vero che le condizioni del mare rendevano impossibile avvicinare la barca dei migranti”.

Si potevano salvare ma non sono stati salvati.

Le domande sul mancato intervento della Guardia Costiera, nonostante ci fosse stata una segnalazione di Frontex, forse troveranno risposte nell’inchiesta della procura di Crotone che al momento ha disposto l’arresto dei tre scafisti con le accuse di omicidio, naufragio colposo e favoreggiamento di immigrazione clandestina.

Abbiamo conosciuto il nome e il volto di una delle vittime: Shahida Raza, 27 anni, sportiva. Era partita dal Pakistan, così raccontano alcune testate, per cercare le cure per il figlio Hassan che da piccolo era rimasto paralizzato nella metà del corpo. Shahida, come coloro che hanno lasciato il proprio Paese, è salita su quel barcone da ragioni che in troppi non riescono a capire. Il privilegio di non conoscere la disperazione più nera porta con sé una disarmante stupidità, spesso accompagnata da giudizi banali e carichi di cinismo, astio, odio, fastidio. Sentimenti meschini alimentati dalle sommarie dichiarazioni di politici e rinforzati dalle scellerate politiche di respingimento. Shahida cercava cure per il figlio che in Pakistan non avrebbe mai potuto ricevere: non sarebbe un valido motivo per spingere ognuno di noi a salire su un barcone?

Sono migliaia le donne che scappano dalle loro case per raggiungere il nostro Paese, spesso sopravvissute ad una violenza non detta, rimossa e invisibile. Le attiviste dei Centri antiviolenza le hanno incontrate negli hotspot grazie ad una collaborazione avviata da anni con Unhcr. Molte, tra coloro che richiedono asilo, si sono lasciate violenze alle spalle per subirle ancora durante il viaggio. A Lampedusa le operatrici lavorano in equipe con mediatrici culturali formate per offrire supporto alle donne e informarle sull’attività dei Centri antiviolenza e sui diritti e le leggi in vigore nel nostro Paese.

Nell’hotspot sono stati creati spazi dove svolgere colloqui individuali, anche se molto spesso le prime richieste riguardano i bisogni essenziali, come cibo, vestiario e materiali per i bambini o l’accesso all’infermeria per avere cure mediche. Le violenze vissute emergono quando ci si mette in cerchio in piccoli gruppi e si comincia a condividere le esperienze. Le violenze sono state spesso il motivo per partire, ma poi vengono subite anche durante il viaggio. Gli stupri, la conseguenza delle gravidanze indesiderate, la richiesta di abortire e il sostegno per accedere all’interruzione volontaria.

A nord, alle frontiere di Trieste e Tarvisio invece, le operatrici hanno accolto l’anno scorso le donne provenienti dall’Ucraina a seguito della guerra, e oggi stanno offrendo supporto alle donne profughe e richiedenti asilo che arrivano dalla rotta balcanica; afghane, siriane, iraniane.

Possiamo abbattere le barricate della nostra indifferenza conoscendo le storie di chi arriva sulle nostre rive, ma non è ciò che sta avvenendo, soprattutto quando si parla di “carichi residuali”, “sbarchi selettivi”, parole che deumanizzano e ci rendono disumani – come disumane sono le condizioni nelle quali vivono i migranti e i richiedenti asilo. Nelle strutture destinate ad accoglierli sono stipati a migliaia in spazi progettati per accogliere qualche centinaio di persone e senza poter uscire per mesi.

Francesca Maur, consigliera nazionale D.i.Re, racconta la sua esperienza: “Sono andata a Lampedusa con una missione di monitoraggio sulle attività che la rete dei Centri antiviolenza sta svolgendo nell’hotspot. Quando sono arrivata davanti alle inferriate che ne delimitano lo spazio mi si è chiuso lo stomaco alla sola idea di quello che vi avrei trovato. E il corpo raramente si sbaglia: materassi luridi gettati ovunque, montagne di immondizia, donne, bambini e uomini sparpagliati dappertutto, puzza di sudore, sporco e urina. Ma anche lo sguardo delle donne “ospiti” che accoglievano le colleghe, i loro sorrisi che accompagnavano i saluti del mattino: gli stessi sorrisi, misti a lacrime, che avrei trovato poco dopo nelle attività di gruppo che svolgiamo ogni giorno con loro. Le loro parole di ringraziamento ma anche le domande poste. Solo in parte ho trovato risposta alla domanda sul senso di essere lì, in quel luogo, con quelle donne migranti e richiedenti asilo: spezzare la solitudine, creare solidarietà, informare nella consapevolezza che sapere è potere, sentendo che non esserci sarebbe un po’ come girare loro le spalle”.

Alessandra Sciurba, docente dell’Università di Palermo, arrivata a Crotone con una parte della clinica legale Migrazioni e diritti, racconta sulla pagina Rete 26 febbraio “di un hotspot improvvisato con la metà dei letti che servirebbero, bagni in comune, pareti scrostate e nessun riscaldamento e senza la possibilità, se non per poche uscite programmate e scortate, di restare accanto alle bare e ai parenti arrivati da lontano per identificare e piangere i morti. Qui serve tutto. Ben oltre la commozione e le visite brevi delle istituzioni”. Intanto non ci sono ancora notizie sui fondi da destinare per il rimpatrio delle salme: chi ha perso un famigliare, racconta Sciurba, chiede che sia portato in Afghanistan con la consapevolezza di affrontarne le conseguenze perché fuggiva dal regime dei talebani.

DiRe ha commentato il naufragio di Cutro come di “una tragedia annunciata, come lo sono state e purtroppo continueranno ad esserlo tante altre. Stragi che riguardano il disperato tentativo di donne, bambini e uomini di allontanarsi da paesi in guerra, carestie, violazioni dei diritti umani fondamentali, discriminazioni e persecuzioni. L’esternalizzazione del controllo delle frontiere deliberata dal Consiglio europeo, come pure le politiche nazionali dei rimpatri e le norme che limitano le attività di soccorso in mare, come quelle previste dal decreto legge Piantedosi sulle Ong, in realtà non possono che aumentare il numero di questa tragedia già immane. Ci domandiamo quindi a che cosa servano le dichiarazioni della presidente del Consiglio Meloni sul governo impegnato a impedire le partenze. Fermare le partenze significa solo consegnare le donne, i bambini e gli uomini in fuga ai loro aguzzini, ai trafficanti di esseri umani, avallando in questo modo gravissime violazioni dei diritti umani”.

In tutta Italia si sono moltiplicati sit-in e le manifestazioni di protesta. Mai più morti nel Mediterraneo, quelle morti che potevano essere evitate ci stanno ricordando che siamo un popolo di immigrati e che “loro” siamo noi.

@nadiesdaa

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