di Fabrizio Cambriani

C’è stato un momento ben preciso e determinato in cui il Partito democratico e gran parte del centrosinistra è entrato in rotta di collisione con il proprio elettorato: l’adesione alle leggi elettorali dei nominati. Da allora, si sono succedute ben cinque legislature in cui i parlamentari espressi, più che interpretare e rispondere ai bisogni degli italiani, sono stati costretti a sottostare ai voleri della linea politica del leader di turno. Pena, come narrano le cronache, il pubblico dileggio e l’esclusione dalle liste.

Si tratta di una decisa inversione di rotta, per i principi fondamentali della politica, in cui l’analisi e l’elaborazione dei reali bisogni dell’elettorato viene prima elusa e, a ogni decisione assunta dai gruppi parlamentari, successivamente delusa. A ogni elezione, si registra una sempre più alta diserzione dalle urne e una smobilitazione di iscritti e militanti.

Oggi, accade come le analisi dei bisogni e le indicazioni le diano ascoltatissimi opinion leader dalle pagine dei giornali. Di editori, peraltro, che hanno il loro core business, in altri continenti. E che, in particolare, essi opinion leader, siano quanto di più lontano dalle sensibilità di una grande massa – che esiste ancora – ma che si rifiuta di farsi teleguidare da questa attempata e improbabile borghesia vaticinante.

Oggi, accade che figure politiche di primissimo piano, per poter essere elette in Parlamento, siano costrette a farsi dirottare a centinaia di chilometri di distanza dai loro territori. Oggi, accade che il segretario pro tempore assuma – o in solitaria, o con la sua ristretta cerchia di fedelissimi – una decisione e la sottoponga alla ratifica del gruppo dirigente. In tempi brevissimi e con modalità che possano escludere qualsiasi forma di vera dialettica interna. Così è accaduto per l’invio delle armi all’Ucraina. Così è accaduto per la mancata alleanza con il Movimento 5 Stelle. Numeri da maggioranze bulgare che, se da una parte salvano la forma al principio di democrazia associativa, dall’altra producono un corto circuito con l’intero elettorato di riferimento.

Il risultato è una lunghissima collezione di disfatte del Pd e dell’intero centrosinistra. Sono anni che segnali di questo inquietante allarme si materializzano, prima nelle regioni, poi a livello nazionale. Ma nessuna contromisura è stata mai presa per poterli arginare. Anzi, con la segreteria Letta, la cesura e il distacco sono stati particolarmente abnormi ed evidenti. Tuttavia, per i componenti di questa ristretta oligarchia, un posto in Parlamento o un ruolo equipollente lo si è sempre trovato.

Il recente Congresso democratico ha plasticamente certificato questa scollatura con la base. Bocciando tutta quella che, nel corso degli anni, ne è diventata ridondante, ma inutile nomenklatura. Una delle cose che Elly Schlein dovrà fare, per invertire questa rotta, è quella di chiedere di rottamare questa legge elettorale. Così da poter selezionare con cura la sua classe dirigente, reclutando chi abbia davvero la capacità di analizzare a fondo i bisogni degli italiani. Senza la necessità di fare – come fa la destra – di inventarne altri a loro più affini e congeniali. E senza la tentazione di cadere nella ragnatela di effimere narrazioni mediatiche che, vuoi per pigrizia o per convenienza, hanno condotto il partito Democratico a un passo dall’estinzione.

Si tratterà di ricominciare dalle piccole sezioni, ormai da anni in disuso. Dovrà combattere, Elly Schlein, la riluttanza e la diffidenza di quelli che sono stati troppo spesso disillusi dai promotori della politica smart. Dovrà occuparsi molto di più delle cose importanti invece che della contingenza di quelle urgenti. Ma questa è l’unica strada che ha davanti per poter rigenerare non solo il suo partito, ma tutte le altre forze di vera opposizione. Che abbiano, successivamente, la capacità e la forza di poter affrontare assieme le sfide sociali, quelle pacifiste e ambientali.

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