Scrivevamo sui Siciliani giovani del 27 febbraio, subito dopo l’annuncio della strage di Crotone: “Alcuni cittadini italiani, investiti di pubbliche funzioni, si sono in questi anni attivati per sabotare operazioni di vigilanza e salvataggio in mare, che in questo e altri casi avrebbero potuto forse evitare stragi. Ciò in violazione di leggi nazionali e internazionali formalmente vigenti. Ed è quindi possibile – aggiungevamo – che i responsabili possano prima o poi risponderne penalmente, e non solo moralmente, in uno dei prossimi anni”.

Servitori fedeli la Repubblica ne ha ancora: l’ufficiale che contesta la sommaria ricostruzione, l’ammiraglio che ricorda come le sue navi si dimostrarono perfettamente in grado di uscire con ogni tempo, i magistrati che aprono inchieste sulla catena di comando che impedì il salvataggio.

Per questa orrenda giornata, per i poveri morti che si potevano salvare, qualcuno alla fine dovrà pagare. Non un capro espiatorio, non il solito “muro basso”. Non marinai, non capitani, nemmeno ammiragli tenuti fermi da ordini superiori. La catena di comando sale molto più in alto. E in cima non ha gente di mare ma gente saldamente piantata, con le sue poltrone, sulla terra.

L’Italia è il paese in cui i comandanti dei sommergibili – come Todaro – rischiavano la vita per portare in salvo gli uomini delle navi nemiche. Questo onore grandissimo, che segna la nostra bandiera sul nostro mare, adesso è in mano ai giudici che debbono smascherare e punire chi l’ha sporcato.

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