Miracolo in via della stazione. Dove volavano proiettili di ogni calibro, tra carcasse di carri armati in fiamme e cadaveri, ora c’è speranza e ricostruzione. Un anno dopo l’aggressione russa e gli orrori commessi dagli occupanti, a Bucha si guarda al futuro con l’ottimismo della ripresa. Vokzalna ulica, via della stazione appunto, epicentro del male, non è quella di dodici mesi fa.

Nel tratto più drammatico di quella strada che unisce Bucha a Irpin, circa un chilometro, al posto dei ruderi bruciati e dei monconi abbattuti di decine di casette e condomini sta sorgendo una nuova comunità residenziale. Un unico, enorme cantiere portato a Bucha dalla fondazione Buffett, in nome del miliardario Warren Buffett: il figlio Howard, dopo la visita in Ucraina l’estate scorsa al presidente Volodymyr Zelensky, ha annunciato la donazione da 2,7 milioni di dollari a favore del Paese martoriato dalla guerra.

Ora iniziano a vedersi gli effetti di quella concessione filantropica. In meno di 365 giorni l’80% degli edifici distrutti è stato già ricostruito con le tecniche di ultima generazione anche sul fronte del risparmio energetico. Blocchi di cemento, travi in legno e tetti in lamiera speciale, ma anche cappotti termici e riscaldamento a pavimento per i rigidi inverni a nord di Kiev. Il fracasso della guerra, dai sibili sinistri delle pallottole allo stridio dei cingolati fino ai boati dell’artiglieri pesante, sostituiti dai rumori dei cantieri. Gli uomini al lavoro non hanno più divise militari, ma imbragature e caschetti di sicurezza e in mano hanno trapani e saldatrici e non fucili. Dai soldati ai carpentieri, dai distruttori di vite ai costruttori di futuro.

Lungo quella strada c’eravamo stati undici mesi fa più o meno. Aprile 2022, i russi se n’erano andati da pochi giorni dalla regione del nord-ovest di Kiev dopo un mese di occupazione. Il tentativo di arrivare coi tank fino al cuore della capitale ucraina fallito, da lì l’ordine della ritirata dal Cremlino e il riposizionamento sul fronte orientale. A terra restavano centinaia di vittime innocenti: oltre 1.200 i corpi di civili uccisi nella provincia, un terzo dei quali a Bucha.

E poi le devastazioni: “Sono tornato a Bucha due settimane dopo che i russi si erano ritirati. Mio padre si era spostato a Irpin al tempo e aveva preferito che io, mia madre e mia sorella ce ne andassimo in un posto più sicuro, a Vinnytsia. Non potevo credere ai miei occhi, a come avevano ridotto la città”. Denis ha appena compiuto vent’anni e ci accompagna lungo Vokzalna. C’eravamo stati assieme ad aprile, voleva farmi vedere la casa della nonna dove aveva trascorso tante giornate felici della sua infanzia: “Mia nonna prima dell’invasione è sfollata a Kiev in quei giorni difficili. Un mese dopo la sua casa non c’era più. Si ricorda, a parte qualche muro annerito, il resto era stato abbattuto, a partire dal tetto. Adesso sembra davvero un miracolo – aggiunge Denis -, meno di un anno ed eccola lì la casa di mia nonna. È diversa, molto diversa. Tutto è diverso qui. Quando sarà tutto pronto lei tornerà ad abitare qui e io la verrò a trovare nella sua casa nuova”.

Su svariate decine, forse più di un centinaio abbondante di immobili, le ditte stanno lavorando ad almeno il 90% del patrimonio edilizio privato di Vokzalna. Una vivacità strabiliante, sembra di stare in un unico, efficiente cantiere in vista di un grande evento sportivo: “Il Comune di Bucha ha emesso un bando per affidare i singoli appalti e noi ci siamo aggiudicati questo – spiega Bogdan, a capo di una ditta edite di Zytomyr alle prese con una villetta a un piano con mansarda -. Stiamo lavorando da almeno cinque mesi senza sosta e presto consegneremo l’opera. Stiamo rifinendo e isolando il tetto. Quando abbiamo iniziato qui era stato ripulito tutto dalle macerie, tirare su una casa è stato il minimo. Saranno case più energetiche, sicure e soprattutto con materiali nuovi”.

Via l’eternit dai tetti e l’amianto per le coibentazioni; spazio a legno e infissi di qualità. Via della stazione, che incrocia Yablunska ulica, l’altra strada degli orrori, è lunga quasi due chilometri e finisce il suo percorso al limitare del territorio comunale di Bucha. Un breve tratto di ‘zona grigia’, il ponte sull’omonimo fiume lungo poche decine di metri, e la strada prosegue sempre diritta, ma nella municipalità di Irpin. In questo spazio i combattimenti sono stati durissimi. A farne le spese pure il centro commerciale Giraffe mall. Un anno fa era a pezzi, ora lo stanno ricostruendo e attorno ci sono tanti piccoli baracchini: “Il mio caffè era lì dentro – ci dice Valentyn, titolare del chiosco – , poi è arrivata la guerra e siamo scappati tutti. Cinque mesi fa l’amministrazione ci ha dato l’opportunità di ripartire con questa struttura temporanea. Quando sarà riaperto il centro commerciale dovrei tornare al mio posto”.

Rimettere in piedi l’economia e il patrimonio materiale sembra alla portata, ma a Bucha (dal giugno scorso gemellata con Bergamo) c’è da ricostruire l’anima devastata della sua gente e tarare la memoria. In pochi mesi la città ha fatto passi da gigante in tal senso, come Irpin del resto. La stessa cosa non accadrà così facilmente per altre realtà territoriali ucraine sotto occupazione. Pensiamo a Kherson, Izjum, Lyman, la stessa Kupjansk, liberata e adesso di nuovo coi russi a pochi chilometri.

Ad aprile 2022 a Bucha c’erano solo i fantasmi, poi col tempo le cose sono cambiate. I negozi, i caffè, i ristoranti, le aziende, tutto il tessuto commerciale ha ripreso vigore. C’è gente a spasso, i bambini col loro vociare gioioso negli asili, la confusione dei mercati rionali, le file ai bancomat e in farmacia e i trasporti hanno ripreso regolare attività dà e verso Kiev e il resto dell’oblast. Agli abitanti di Bucha restano il ricordo e la preghiera, ma non il perdono: “Non credo che ai russi, a partire dal presidente Putin e dal patriarca Kirill, interessi sapere se la nostra gente li perdonerà un giorno. Ci penserà il Signore a giudicare il loro comportamento e, se necessario, concedere loro la redenzione”.

Andriy Galavin è il prete ortodosso della chiesa di Sant’Andrea, a due passi dal centro di Bucha. Eretta su una collinetta, bianca come l’avorio, le cupole verdi, lo splendido luogo di culto domina sul grigio dei condomini a stecca, del cielo e degli umori della gente. Testimone delle violenze dei soldati russi dalla fine di febbraio ai primissimi giorni di aprile ’22, pochi giorni fa è stato lui a condurre nel triste giro della memoria la Premier italiana Giorgia Meloni alla sua prima visita in Ucraina: “È rimasta molto colpita, come tutti quelli che sono venuti a vedere coi loro occhi quanto accaduto qui. L’Italia è un paese che amo, così come la sua gente”.

Il pastore Galavin ha appena terminato la funzione di rito ortodosso a cui hanno partecipato diversi fedeli e ora fa fatica a tornare indietro coi ricordi a un anno fa. La sua testimonianza è molto importante per ricostruire le tappe dell’occupazione e delle violenze: “I carri armati russi sono entrati a Bucha il 27 febbraio. Me li ricordo qui davanti, quando i soldati hanno iniziato a sparare contro la chiesa. I segni sono evidenti. Inizialmente sono stati respinti dalla difesa civile, ma poi il 3 marzo si sono impossessati della città. Sono state settimane terribili. Gli occupanti uccidevano a caso, per strada, dentro le case, a seconda di come girava loro. Hanno rapito, violentato, rubato, assassinato la gente e lo hanno fatto da subito”.

E poi la fossa comune più grande realizzata a Bucha, proprio alle spalle della chiesa di Sant’Andrea, in un prato semplice: “Non sono stati i russi a scavare e seppellire i cadaveri, nessuna forma di rispetto per i morti. Siamo stati noi di Bucha a riempire quella fossa per non lasciare i corpi in giro per strada. Il cimitero municipale era pieno, non c’era posto, e allora io e la gente di Bucha li abbiamo raccolti e infilati qui sotto – racconta Andriy Galavin davanti alla fossa dissodata e al monumento dedicato alla memoria dei caduti, pieno di fiori e di peluche -. A occupazione finita li abbiamo riesumati: c’erano 116 corpi, comprese 40 donne e 2 bambini, di 4 e 9 anni, due fratellini morti assieme ai genitori”.

Una storia drammatica quella della famiglia sterminata: “Li conoscevo bene, brava gente, una famiglia straordinaria. Guardi, abitava in quella casa rossa proprio alle spalle del recinto della chiesa. Pensi, nella primavera del 2014 erano fuggiti dal Donbass dopo l’occupazione dei filorussi. Erano spaventati e avevano scelto la tranquilla periferia della capitale per riprendere la loro vita. Un destino crudele il loro. Uno dei primi giorni dell’occupazione hanno deciso di scappare, di mettersi in salvo, come tanti avevano fatto. Sono stati fermati da una postazione russa che ha incendiato la loro auto. Sono morti carbonizzati”.

La propaganda del Cremlino, nei giorni successivi alla ritirata verso il confine bielorusso e allo svelamento degli orrori di Bucha, ha preso le distanze da quei fatti, scaricando le responsabilità sugli ucraini e su una epocale messinscena. Ovviamente non c’era stata alcuna messinscena, solo evidenze che ora verranno valutate dai tribunali speciali per giudicare gli eventuali crimini contro l’umanità: “Chi è rimasto a Bucha in quei giorni ha potuto osservare quanto successo. Ci sono centinaia di testimoni oculari che hanno raccontato le loro esperienze, ci sono video girati e postati sui social. Quello dei corpi dentro i sacchi neri gettati in questa fossa – ce lo mostra il prete ortodosso – è datato 13 marzo. È la conferma, se ce ne fosse bisogno, che le violenze sono iniziate subito, a cavallo tra febbraio e marzo 2022, e non a fine occupazione”. La guerra non è finita, così come l’offensiva di Mosca che sta riguadagnando terreno a est. Per ora sembra scongiurata una nuova operazione militare dalla Bielorussia verso Kiev e dunque verso Bucha. E se dovesse succedere di nuovo? Andriy Galavin alza lo sguardo al cielo, ci saluta e rientra nella sua chiesa.

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