Dopo un anno di guerra in Ucraina papa Francesco appare isolato. Mai negli ultimi sessant’anni la Santa Sede – di fronte a eventi di portata internazionale – si è trovata in una situazione così marginale. Nell’Unione europea nessuno sposa la sua proposta di un cessate il fuoco, che apra la strada a negoziati per una pace che tenga conte delle preoccupazioni delle parti in causa.

La Gran Bretagna lo ignora. Il presidente americano Biden non vuole interferenze. Putin non considera il Vaticano un tramite efficace per arrivare a trattative. Xi Jinping, per motivi di politica interna, non intende dare eccessivo risalto alla posizione della Santa Sede. Zelensky, che pure all’indomani dell’invasione russa aveva ventilato la possibilità di una mediazione del Vaticano, ora vuole una sola cosa: un viaggio del pontefice a Kyiv per mettere Putin ancora più nell’angolo. L’arrivo del papa, spiega un diplomatico ucraino, “farebbe saltare l’ultimo ponte dello stato terrorista russo con il mondo civilizzato”.

E’ una situazione mai sperimentata dalla diplomazia vaticana. Nelle cancellerie europee la voce di Francesco è rispettata ma marginalizzata, silenziata. In qualche ambasciata si tende a commentare che in fondo il segretario di Stato cardinale Parolin e il ministro degli esteri vaticano, mons. Gallagher, si sentirebbero a disagio per la linea intransigente del pontefice argentino. Intransigente perché, come dichiarò l’Osservatore Romano l’anno scorso, il papa di Roma “non può essere il cappellano dell’Occidente”.

L’isolamento del Vaticano è un fenomeno inedito. Deriva dal brusco mutare del contesto internazionale. Sessant’anni fa, durante la crisi di Cuba, sia Kennedy che Krusciov volevano servirsi della mediazione vaticana. Anche durante la presidenza Obama il governo di Washington trovò conveniente arrivare ad una sistemazione delle relazioni con l’Avana tramite il Vaticano.

Per rifarsi ad un’altra grande crisi internazionale – l’invasione dell’Iraq da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna nel 2003 – la posizione nettamente contraria di Giovanni Paolo II si poté giovare dell’analoga e convergente opposizione di Francia e Germania (oltre che di Russia e Cina). Intorno al fermo “no” di Wojtyla si schierarono il Consiglio mondiale delle Chiesa, la Chiesa anglicana, il Patriarcato ecumenico ortodosso di Costantinopoli, il Patriarcato ortodosso di Russia e il Consiglio delle Chiese degli Stati Uniti.

Adesso il mondo cristiano è fortemente lacerato di fronte alla guerra. E in Europa è venuto a mancare il “motore franco-tedesco” come elemento di elaborazione politica autonoma. Nel 2008 furono Parigi e Berlino a bloccare la spinta del presidente americano George W. Bush ad allargare ulteriormente a est lo spazio Nato, inglobando l’Ucraina. Oggi una posizione europea non esiste. Francia, Germania, Italia, nucleo storico dell’Ue, tacciono.

Nel 2022 il viaggio di Draghi, Macron e Scholz a Kyiv ha evidenziato la rinuncia a qualsiasi ruolo politico europeo nel discutere fini e obiettivi della guerra: i tre leader hanno semplicemente portato al presidente Zelensky l’assenso allo status dell’Ucraina quale paese candidato all’Unione europea (che in base alle regole vigenti non avrebbe potuto ottenere).

Le chiavi di una possibile soluzione del conflitto stanno a Washington oltre che a Mosca. Non c’è esperto di politica interazionale o responsabile di settori chiave istituzionali (esteri ed intelligence) dei paesi Nato che non sappia che il dominus della situazione è Joe Biden. Il presidente degli Stati Uniti si è mosso finora in maniera calma e razionale. Sarà lui a decidere fin dove arrivare. Ma l’escalation del conflitto è per sua natura imprevedibile e nessuno può immaginare cosa succederebbe se la Russia arrivasse a ritenere praticabile l’opzione nucleare, visto che Putin agita nei suoi discorsi il concetto di una “lotta esistenziale”.

All’Onu la risoluzione per un ritiro “immediato, completo e incondizionato” della Russia ha avuto una netta maggioranza (141 voti). Eppure permane una vasta parte della popolazione mondiale (Cina, India, Pakistan, Sudafrica ma anche stati che hanno votato “sì” alla risoluzione) che non vuole accettare l’impostazione “o con me o contro di me” del fronte occidentale.

Francesco può sembrare una Cassandra inascoltata se ci si limita alla “fascia bianca” dell’Occidente. Ma la linea geopolitica planetaria, che ha impresso (come già Wojtyla) alla politica vaticana, rende ogni giorno più lucido e realistico il suo grido di allarme. Non si arriva alla pace senza un cessate il fuoco. Non si costruisce la pace se si ragiona soltanto in termini di blocchi militari. Una gestione unipolare del mondo non è praticabile. Una nuova guerra fredda bipolare (Usa-Cina) non è produttiva per il pianeta. Dunque – come chiede Francesco – è urgente pensare ad una nuova Helsinki, un patto per un sistema di relazioni planetarie sottoscritto dai principali protagonisti della scena internazionale.

Il recente memorandum cinese, scrive l’Avvenire, può essere criticato, però è un gesto “politico” che richiede una risposta politica. Pretendere che sia scritto come vorrebbero a Washington non ha senso. Francesco ha dietro di sé l’inquietudine crescente di masse popolari, che non sono convinte dei proclami che incitano alla “guerra fino alla vittoria”. O si arriva a fermare le armi o si rischia di scivolare nel disastro generale.

Il primo ministro ucraino Denis Shmyhal ha appena dichiarato che per cento anni non ci sarà spazio per una riconciliazione con Mosca. L’obiettivo da raggiungere è che la Russia sia “democratizzata, smilitarizzata e denuclearizzata”. Insomma, alla Russia va riservato il destino della Germania nel 1945. E’ l’opposto di quanto un tempo indicava il presidente francese Macron: difesa dell’Ucraina sì, ma “nessuna vendetta e umiliazione” per Mosca.

La posizione di Kyiv spinge verso la catastrofe. E la catastrofe è quello che Francesco esorta a evitare.

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Usa-Cina, ovvero: prima di guardare in casa d’altri, guarda a casa tua

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