di Giuseppe Pignataro

Durante il percorso formativo – dalla fase adolescenziale a quella più matura – nelle lezioni si concretizzano la professionalità e i saperi del docente che sceglie strategicamente la curvatura degli elementi che la connotano. Il contenuto e le esigenze relazionali nel cammino dell’apprendimento, insieme ai compiti da assegnare e alle verifiche da valutare per le finalità del percorso conclusivo, rappresentano gli strumenti plurimi in grado di veicolare la forza di un messaggio. Il docente decide quale senso dare a quel preciso argomento in quella lezione. Finalizza l’azione didattica esplicitando quali sono gli esiti che dovrà produrre stimolando la partecipazione attiva degli studenti – elementi senza i quali il processo sarebbe controproducente.

La didattica in sé non è buona o cattiva. Può essere però efficace o non efficace e inevitabilmente questo si misura sul raggiungimento dei risultati attesi. Dipende dalle persone e come tale può essere molto eterogenea. È bene però condividere un punto insieme: l’insegnamento non sarà mai autentico se chi insegna non cresce insieme ai suoi allievi. Questa non è un’impresa di poco conto se consideriamo la tendenza abitudinaria dei docenti a ripetere pedissequamente un programma di studio tradizionale nel corso degli anni. Su questo si unisce un ulteriore aspetto – un unicum nel mondo odierno.

Il massivo utilizzo dei cellulari e più nello specifico la presenza fluttuante di informazioni proveniente dai social network rendono più difficile il mestiere del docente. Catturare l’attenzione dei giovani è un percorso sempre più articolato, che spesso richiede la forza di ‘messaggi semplici’ – la necessità di un conformismo del linguaggio. Non vi è alcun dubbio che oggi la brevità del confronto colloquiale e la messagistica istantanea abbiano semplificato il nostro lessico. Siamo infatti di fronte a una comunicazione iper-semplificata che rinuncia volutamente a una riflessione articolata impoverendone il linguaggio, ma purtroppo anche il pensiero.

Una giustificazione che sembra inaccettabile, ma che per i docenti sembra quasi inevitabile per catturare l’attenzione degli studenti. La storia però si arricchisce nei dettagli e il ruolo del docente può anche essere interpretato in modo molto diverso. Un bellissimo libro di Gianrico Carofiglio, La manomissione delle parole, segnala infatti come la povertà del linguaggio crei un pensiero critico appiattito che in passato ha avuto effetti nefasti per la stessa democrazia, che del linguaggio vive e si autoalimenta.

La narrazione dei fatti non è in effetti un’operazione neutra. Essa crea una realtà o una percezione di essa e stimola gli intenti di ciascuno. Però quando il lessico è povero e debole diventa il suo significato. Le parole si svuotano di senso e maggiore è la semplificazione del linguaggio; diventa importante riappropriarsene per acquistare consapevolezza. Sarebbe quindi da ricomporre l’armamentario di questo lessico strattonato – la nostra cassetta degli attrezzi lessicali sempre più leggera dovrebbe essere contaminata dal confronto reciproco. Indispensabile appunto in questo quadro il ruolo dei docenti chiamati a un ulteriore sforzo per stimolare se stessi, ma anche e soprattutto per aiutare i giovani.

Tutto è linguaggio – dalle parole utilizzate più o meno ricercate, alla loro fusione in una frase dal sapore di sentenza, perfino legato al tono con cui essa si pronuncia. Potrebbe però valere la pena riformulare il nostro lessico pensando agli effetti che il nostro messaggio può generare sugli altri. Se adeguatamente curate, infatti, le frasi del docente possono non lasciare indifferenti. Perché in fondo – come suggeriva Orwell – combattere contro l’impoverimento del linguaggio significa lottare contro il declino della civiltà.

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