di Giuseppe Pignataro*

Gli istituti di secondo grado sono ormai da qualche anno impegnati nello sviluppo delle competenze trasversali e per l’orientamento (Pcto) con il principale obiettivo di permettere agli studenti di maturare un atteggiamento di graduale e sempre maggiore consapevolezza delle proprie vocazioni.

Tra le principali attività di orientamento, un percorso interessante è quello che lega negli ultimi anni le esigenze delle scuole superiori al percorso universitario. Complice forse una intensa attività del Pnrr che ha dedicato ben 250 milioni di euro alla transizione scuola-università, quest’anno le scuole hanno (in anticipo rispetto al tipico scadenzario) stipulato convenzioni per favorire momenti di confronto con i vari Atenei.

L’Italia, infatti, è uno dei fanalini di coda dell’Unione Europea nell’ambito dell’istruzione terziaria. Nonostante negli ultimi anni le immatricolazioni delle università italiane siano tornate a crescere, la distanza che ci separa da molti paesi è tanta, forse troppa. Il rapporto Agi-Censis segnalava neanche due anni fa come all’Italia servirebbero circa ottomila immatricolati in più l’anno per tentare di raggiungere la media europea. Un divario crescente se ad esempio si osservano i dati sul numero di laureati.

Gli obiettivi di politica pubblica sono evidenti. Far crescere il numero degli immatricolati e futuri laureati per tentare di rispondere al meglio alle esigenze del mercato del lavoro. Con una produttività media ridotta nel tempo e una fase ciclica non favorevole, è evidente come le esigenze di formazione, innovazione e ricerca siano considerati necessità impellenti per la sopravvivenza dei paesi sviluppati.

Non sono molti però a chiedersi come vive lo studente questa fase di vita. In effetti quali dovrebbero essere le ragioni per ‘investire’ tempo e risorse (spesso ingenti) in un investimento così rischioso? Una spesa che negli ultimi anni spesso non ha trovato corrispondenza rispetto alle esigenze del mercato del lavoro. Questo è certamente un punto – forse il principale, ma non l’unico. I giovani e le loro famiglie – in particolare se in condizioni di disagio – brancolano spesso nel buio: perché l’università? Perché studiare, in fondo?

Al di là degli aspetti economici (non banali), ci sono pensieri e preoccupazioni che accompagnano gli studenti nell’affrontare questo percorso. A pensarci bene, l’Italia non è un paese per giovani. Non lo è anche perché si tende spesso a ridimensionare e sottovalutare il peso dell’istruzione. L’università nasce per i giovani, non per gli anziani. L’economia ci insegna che, se questa nostra terra ha una possibilità, ce l’ha proprio nell’investimento in conoscenza.

Ci sono però anche altri aspetti che andrebbero enfatizzati. La pandemia ha dimostrato in questi anni come la conoscenza in senso lato sia veramente a portata di un click. È sufficiente avere una connessione in hotspot, per quanto limitata e precaria, per essere connesso e sentirsi parte del mondo. Anche solo qualche anno fa, la virtuale interazione che abbiamo avuto (nonostante l’isolamento) sarebbe stata impossibile. Non avremmo potuto reagire e saremmo rimasti lontani non solo fisicamente ma anche intellettualmente. Ed è proprio questo il punto: lo sviluppo dell’intelletto – inteso come la nostra unica facoltà di istruire rapporti ideali (non solo razionali) come passioni ed emozioni che guidano le nostre vite.

Oggi si pensa che la conoscenza sia a portata di un click, ed è vero. Il ‘sapere’ a disposizione è molteplice. È sufficiente digitare una frase per ottenere mediamente una sua traduzione in russo o in cinese in poche frazioni di secondo. Un flusso di informazioni continuo ma costante.

Ma è veramente questo che ci rende intellettualmente attivi? Può essere veramente questo che farà la differenza tra noi e gli altri? Diceva Charles Evans Hughes: “Quando perdiamo il privilegio di essere differenti, perdiamo il diritto di essere liberi”. In fondo, non è la quantità di informazioni che rendono una persona più colta o competente. Occorre saper leggere quelle informazioni e tradurle. A vederla così sembra che l’università possa essere percepita come una lente di ingrandimento. Ci vuole la lente per leggere il tutto e reinterpretare il nostro piccolo. Questa lente la forniamo noi, con il nostro impegno quotidiano.

L’università serve anche a questo: a formarci come persone con la nostra intelligenza ma anche le nostre inclinazioni, passioni ed emozioni. Uno spazio di conoscenza ma anche un luogo di formazione delle coscienze.

*Professore Associato di Politica Economica – Università di Bologna

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