“Sarà uno Stato orgoglioso, indipendente e libero”. Furono parole decise quelle che usò l’allora premier del Kosovo, Hashim Thaci, il 17 febbraio 2008, quando proclamò l’indipendenza della piccola Repubblica balcanica dalla Serbia. Un passaggio, l’ultimo legato alla guerra di Jugoslavia che aveva insanguinato la regione nel decennio precedente, che Belgrado non accettò, spalleggiata dalla Russia. Una storia che sembra essere destinata a cambiare, a 15 anni di distanza da quel giorno. “Gli incontri diplomatici sono riusciti a limare molti aspetti tra le parti e credo che l’accordo tra Belgrado e Pristina sarà presto ufficiale. Segno che il pressing di Unione europea e Stati Uniti sulla Serbia ha sortito l’effetto sperato. Penso che la regione possa presto vivere una nuova fase, legata a un maggiore rispetto tra il governo serbo e quello kosovaro, nonostante le accuse reciproche”, evidenzia a ilfattoquotidiano.it Giorgio Fruscione, ricercatore di Ispi esperto di Balcani.

L’accordo e il ruolo di Belgrado
Un’intesa tra le due parti sarebbe storica perché permetterebbe di risolvere una delle più grandi questioni della regione, il riconoscimento del Kosovo che Belgrado si ostina a bloccare impendendone l’accesso presso gli organismi internazionali. “Qualunque accordo sia in cantiere, di sicuro si cercherà un modo piuttosto soft di far accettare alla Serbia il riconoscimento statuale di Pristina. Gli esempi da cui trarre ispirazione non mancano, come quello usato per l’intesa tra le due Germanie dopo il secondo conflitto mondiale”, evidenzia Fruscione.

Anche per questo, da settimane il presidente serbo Aleksandar Vučić sembra aver alzato il tiro nei confronti di Pristina, sostenendo che “si atteggia come Kiev” e richiamando il parlamento di Belgrado “alla massima responsabilità perché ci attendono giorni difficili”. “In questo modo il presidente serbo sta preparando il Paese e soprattutto l’ala più nazionalista, quella che fatica ad accettare il Kosovo indipendente, all’inevitabilità dell’accordo, presentandolo come ultimatum e sostenendo come senza di esso l’Occidente, dal quale Belgrado dipende fortemente, ritirerebbe tutti gli investimenti fatti, bloccando anche il processo di adesione all’Unione europea”, rimarca il ricercatore Ispi. La tattica vale soprattutto a fini interni: non è un caso, infatti, che i partiti più nazionalisti abbiano accusato Vucic di “tradimento” in merito all’affare Kosovo. “Il timore del presidente è quello di perdere il consenso ottenuto in questi anni. L’accordo potrebbe essere impopolare anche se gran parte della società serba sembra essere disillusa, sia rispetto all’Unione europea che rispetto al Kosovo, che ritengono ormai perso e usato da Bruxelles come moneta di scambio per l’ingresso in Europa. Per questo la battaglia è soprattutto politica, visto che tutti i partiti mostrano interesse sulla questione. Non sarebbe perciò strano immaginare un travaso di voti da Vučić verso i partiti nazionalisti o quei movimenti più oltranzisti, attualmente non presenti in Parlamento, che potrebbero anche manifestare in modo violento il loro dissenso”, evidenzia Fruscione. Anche così si spiega la minaccia sbandierata dal presidente serbo di indire elezioni anticipate, nonostante si sia votato soltanto pochi mesi fa, ad aprile 2022.

L’indipendenza del Kosovo alla sua prova definitiva
In tutto questo Pristina si appresta a vivere il momento più difficile: il governo kosovaro ha infatti iniziato a valutare concretamente la creazione dell’Associazione delle municipalità serbe, prevista già dagli Accordi di Bruxelles del 2013 e oggetto di diatriba con Belgrado negli ultimi mesi. “Le condizioni poste dal premier Albin Kurti sono importanti, ma sono soprattutto la dimostrazione che si vuole mantenere la posizione, per poi ottenere realisticamente un accordo con qualcosa in meno, e un tentativo di prendere tempo”, nota Fruscione. Ma quali sono le condizioni del governo di Pristina? Sarebbero sei: la nuova Comunità dovrà essere innanzitutto in linea con le istituzioni kosovare; non potrà essere monoetnica e potrà operare soltanto per la cooperazione orizzontale dei comuni coinvolti; i diritti delle minoranze nazionali e i relativi meccanismi di tutela dovranno basarsi sulla reciprocità tra Serbia e Kosovo e inoltre dovranno essere smantellate tutte le “strutture illegali della Serbia nel Nord” (come le ha definite Kurti), con la consegna di tutte le armi detenute illegalmente. Inoltre, il Kosovo chiede che l’Associazione dei Comuni serbi faccia parte dell’accordo finale con Belgrado e che il presidente serbo Vučić ritiri le lettere inviate ai leader dei cinque Paesi Ue (Spagna, Grecia, Romania, Cipro e Slovacchia) che non riconoscono il Kosovo dove chiedeva di non accettare la domanda di adesione di Pristina all’Unione europea. “La trattativa con l’Ue riguarda soprattutto le funzioni esecutive di questo nuovo organismo, perché si vuole evitare la formazione di una Repubblica Sprska, simile a quella che c’è in Bosnia, anche in Kosovo. Kurti ha però evidenziato chiaramente che l’obiettivo finale è il riconoscimento del Paese in ambito internazionale e che in ogni caso l’Associazione sarà priva di poteri esecutivi. A mio parere è possibile che alla fine ci sia una delega di Pristina soprattutto nella cultura e nell’istruzione, ma nulla per quanto riguarda sanità e trasporti che potrebbero minare l’indipendenza del Paese”, sottolinea Fruscione.

Allinearsi alla politica estera dell’Unione europea
L’Alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione europea Josep Borrell ha dichiarato di voler presto rivedere Kurti e Vučić a Bruxelles per riprendere quanto prima il dialogo. “Non sarei sorpreso se l’accordo fosse presto o tardi ufficializzato. Una data simbolica potrebbe essere già il prossimo 24 febbraio, primo anniversario dell’attacco russo all’Ucraina”, sostiene Fruscione. Sarebbe un duro colpo per il Cremlino perdere uno storico alleato come la Serbia, con il quale però i rapporti non sono sempre stati strettissimi, come dimostra anche il distacco di Mosca da Belgrado durante la guerra di Jugoslavia negli anni Novanta, quando non si mosse in alcun modo per proteggere il presidente Slobodan Milosevic. Non sorprende perciò l’annuncio del ministro degli Esteri serbo Ivica Dacic di una possibile applicazione anche da parte del governo di Vučić di sanzioni nei confronti della Russia. Come evidenzia Fruscione, “un definitivo avvicinamento della Serbia all’Occidente e all’Unione europea non può che avere come corollario l’applicazione di sanzioni contro Mosca, finora sempre rifiutate da Belgrado. Un passo inevitabile che permetterebbe però ad un’intera regione di voltare pagina”.

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