La Cina ritiene che sia necessaria “un’indagine obiettiva, imparziale e professionale sulle esplosioni del gasdotto Nord Stream“. Lo ha dichiarato oggi il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin. La presa di posizione di Pechino segue quella di Mosca che ieri ha chiesto di convocare una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per discutere della vicenda. Tutto (ri)nasce dall’inchiesta pubblicata la scorsa settimana dal giornalista investigativo statunitense e premio Pulitzer Seymur Hersh da cui emerge che le esplosioni sarebbero state ordinate dalla Casa Bianca e organizzate dalla Cia con la collaborazione della Norvegia. Nella sua ricostruzione Hersch cita però una sola fonte anonima il che non la rende certo granitica. Il reporter, passato alla storia e pluripremiato per aver svelato casi come il massacro di My Lai in Vietnam o le torture nella prigione irachena di Abu Graib, ha poi spiegato che l’anonimità delle fonti in inchieste di questo tipo è la norma poiché i rischi per chi parla sono elevati. Hersh ha aggiunto di non essere particolarmente stupito dal silenzio dei media mainsteram ricordando come anche lo scoop che gli valse poi il premio Pulitzer fu inizialmente rifiutato da testate come Life o Look.

Il reporter, ex New York Times, collabora oggi con il New Yorker ma l’inchiesta è stata pubblicata sulla piattaforma Substack, verosimilmente perché nessuna delle principali testate giornalistiche ha ritenuto opportuno ospitarla sulle proprie pagine. Ma la ricostruzione di Hersh non è passata del tutto inosservata. Il quotidiano londinese The Times ha ripreso la notizia. Altre testate si sono concentrate su una vera o presunta scarsa affidabilità di Hersh alla luce di alcune ultime inchieste molto contestate- Siti come Jacobin.com e Berliner Zeitung hanno invece intervistato l’autore, cercando di chiare meglio le modalità dell’indagine. In Italia l’inchiesta è stata pressoché ignorata.

Le deflagrazioni si sono verificate nel mar Baltico lo scorso 26 settembre danneggiando i due gasdotti Nord Stream che collegano le coste russe con quelle tedesche correndo sott’acqua per 1.200 chilometri. È stata stimata un’entità del danno di mezzo miliardo di euro. Il primo gasdotto è in funzione dal 2012 con una capacità di circa 55 miliardi di metri cubi l’anno. Tuttavia al momento dell’esplosione i flussi erano già stati sensibilmente ridotti (di circa l’80%) per decisione di Mosca, come ritorsione contro Berlino per l’appoggio alla linea Usa sull’ Ucraina. La seconda condotta, con la stessa capacità della prima, è stata completata a fine 2021 ma non è mai entrata in funzione a causa delle ricadute dell’invasione dell’Ucraina. I governi tedeschi avevano attribuito al gasdotto un ruolo strategico oltre che economico.

Dalla Russia proviene gas a basso costo, per un paese che ne fa un massiccio utilizzo. Il raddoppio del “cordone ombelicale energetico” avrebbe inoltre consentito, secondo Berlino, di rinsaldare il legame con Mosca e ridurre gli attriti tra Putin e l’Unione europea. Diametralmente opposta la visione degli Stati Uniti che hanno sempre osteggiato il raddoppio dell’infrastruttura e la vicinanza tra Russia e Germania, considerata un alleato poco affidabile. “Se la Russia invade, non ci sarà più un Nord Stream 2. Metteremo fine a questo”, aveva affermato il 7 febbraio 2022 il presidente americano Joe Biden. Alla domanda “Come farete esattamente, visto che il progetto è sotto il controllo della Germania?” Biden aveva poi risposto “Vi garantisco che saremo in grado di farlo”. Il passaggio è ricordato da Hersh nella sua ricostruzione dell’accaduto. Cosa sappiamo però ad oggi per certo della vicenda? Poco.

Sinora le indagini condotte dalla Svezia hanno solamente confermato come si sia trattato di esplosioni prodotte da ordigni deliberatamente piazzate sul fondo del mare. Inizialmente le intelligence di Stati Uniti, Germania e Svezia hanno puntato il dito contro la Russia. Ma quale sarebbe l’interesse di Mosca nel distruggere un’infrastruttura costruita spendendo miliardi e che serve a esportare il suo gas. In teoria un motivo c’è. Dimostrando di poter colpire anche le infrastrutture, dunque di poter tagliare non solo il gas russo ma potenzialmente anche quello di altra provenienza, il Cremlino avrebbe aumentato le pressioni sui paesi europei per adottare un atteggiamento meno ostile nei confronti di Mosca. Nei mesi successivi tuttavia non sono emersi elementi in grado di suffragare la tesi della responsabilità russa. Lo scorso dicembre il quotidiano statunitense Washington Post ha raccolto le testimonianze dei responsabili di 23 funzionari di diplomazie e intelligence occidentali che concordavano sul fatto che al momento non esistesse nessuna prova in grado di collegare gli ordigni ad un’azione della Russia o di altri paesi. Poi la vicenda è silenziosamente scivolata nell’oblio fino allo scorso venerdì quando Hersh ha riacceso i riflettori sull’accaduto.

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