L’ultimo baluardo della competitività italiana nell’elite europea è caduto con l’uscita della Juventus dalla top 10 della Money League, il report stilato ormai da 26 anni dall’agenzia Deloitte e dedicato ai fatturati delle società calcistiche. Una classifica che rappresenta uno strumento efficace per comprendere, proprio alla luce della sua longevità, le tendenze economiche del calcio, ma che non va letta come un indicatore sullo stato di salute dei club, perché la Money League riguarda esclusivamente le entrate totalizzate in una determinata stagione. Dallo studio della Deloitte sono esclusi i proventi dai trasferimenti, visto che nei libri contabili tali entrate non rientrano nel fatturato, composto in larga parte da denaro proveniente da diritti tv, sponsorizzazioni, premi Uefa, merchandising, incassi e horeca (ristorazione e catering).

I dati 2023, relativi alla stagione 2021-22, vedono in Juventus (undicesimo posto, fatturato 401 milioni) e Inter (quattordicesima, fatturato 308 milioni) le uniche due società nella top 15 con un fatturato in diminuzione rispetto all’annata precedente, con rispettivamente 32 e 23 milioni di euro in meno di entrate. Un chiaro segnale di come, rispetto alle altre società, la ripresa dopo gli anni di pandemia risulti più faticosa per le big delle Serie A. Un problema non solo legato a gestioni commerciali più o meno efficaci dei singoli club, ma anche al sistema calcio italiano. Molti top club europei non hanno ancora raggiunto livelli di fatturato pari a quelli dell’era pre-pandemica (stagione 2018-19), ma sono riusciti a trovare strade alternative per compensare le mancate entrate derivanti dalle restrizioni. In Italia invece, tra sponsorizzazioni al ribasso (Inter -78% nel periodo 18-22, -30% nel 20-22), perdita di competitività a livello internazionale (le ultime, pessime campagne di Champions della Juventus hanno visto gli introiti da diritti tv crollare del 35% nell’ultimo anno e del 19% rispetto al 18-19) e restrizioni sull’accesso agli stadi più rigide rispetto agli altri campionati, si è generato un circolo vizioso che zavorra l’intera sezione dei ricavi. L’unica eccezione riguarda la terza italiana presente nella top 20, il Milan (sedicesimo, fatturato 265 milioni), in crescita di circa 50 milioni sia rispetto alla stagione precedente che a quella pre-pandemica. Nel caso dei rossoneri si tratta dell’effetto di risalita dall’abisso nel quale erano sprofondati nella turbolenta fase di transizione Berlusconi-Li Yonghong, con sette anni di assenza dalla Champions League. Solo i ricavi da stadio non sono ancora tornati al livello di quelli del 18-19 (32 milioni contro 36).

Ogni società della top 10 rappresenta una storia a sé, o quasi. Non sorprende il dominio della Premier League, che piazza due club (Manchester City e Liverpool) tra i primi tre e 16 tra i primi 20, con società come il Leeds che fino a tre anni fa giocavano nel Championship e che oggi staziona al 18esimo posto. O come il West Ham, 15esimo, che in quattro anni ha aumentato del 45% il proprio fatturato – con segno positivo in tutti i flussi di entrata – arrivando a soli 7 milioni di distanza dall’Inter, prima della pandemia davanti agli Hammers di 198 milioni. Eppure c’è differenza tra il Manchester City primo (fatturato 731 milioni) e il Liverpool terzo (fatturato 702 milioni). Nel City i ricavi da stadio sono i più bassi di tutta la top ten ma incidono solo per il 9% sul fatturato, mentre il contributo più rilevante arriva dalle sponsorizzazioni, al cui vertice della piramide si trovano sei partner della proprietà di Abu Dhabi: Etihad, E& (precedentemente noto come Etisalat Group), Experience Abu Dhabi, Aldar, Masdar e Emirates Palace. I Reds invece, quarto club al mondo a superare la soglia dei 700 milioni di fatturato, possono contare sui ricavi del rinnovato Anfield Road e su contratti di sponsorizzazione ritoccati al rialzo grazie alle recenti, significative prestazioni sportive.

Prestazioni che invece mancano al Manchester United (quarto, fatturato 689 milioni), la cui posizione competitiva nella Money League si sta lentamente erodendo a causa delle tante, troppe stagioni lontane dalla Champions. Coppa invece sollevata nel 2021 dal Chelsea (ottavo, fatturato 568 milioni), che proprio grazie all’incremento dei premi Uefa è riuscito a superare di circa 50 milioni il proprio fatturato pre-pandemia. Lo stesso è avvenuto per il Tottenham Hotspur (nono, fatturato 523 milioni), nonostante lo scorso anno si sia coperto di ridicolo in Conference League, ma per il quale stanno iniziando a fruttare gli investimenti fatti sul White Hart Lane. Senza dimenticare la nomina, nel 2021, di un nuovo direttore commerciale, proveniente dalla NFL americana, abile nell’aver incrementato del 20% (da 171 a 215 milioni) le entrate commerciali in soli dodici mesi. L’Arsenal (decimo, fatturato 433 milioni) invece è salito di una posizione pur non avendo giocato in Europa né vantando una crescita spettacolare. E’ stato il tracollo della Juventus a favorire i Gunners, forti di ricavi da stadio tre volte più alti di quelli dei bianconeri (94 milioni contro 32), a fronte di minori entrate commerciali e sostanziale parità riguardante diritti tv e premi Uefa.

Il grande sconfitto della Money League 2023 è il Barcellona (settimo, fatturato 638 milioni), che in un anno ha visto evaporare oltre 230 milioni di introiti. Se erano prevedibili contrazioni nelle entrate sia per i ricavi tv, a causa della prematura eliminazione dalla Champions, sia dal botteghino, con il Camp Nou non ancora a pieno regime per la pandemia, ha sorpreso il crollo delle sponsorizzazioni di 100 milioni. E il futuro non appare roseo, visto che una parte di questo futuro il Barcellona se lo è ipotecato cedendo a una finanziaria il 25% delle entrate televisive e il 50% delle entrate dei Barça Studios. Più contenute le perdite da mancati introiti del Real Madrid (secondo, fatturato 714 milioni), per i quali pesa più che altro lo smacco morale di vedersi superati da una società da pochi anni entrata nel giro dell’elite quale il Manchester City, con cui però non gioca lo stesso tipo di campionato per quanto riguarda le sponsorizzazioni, non potendo competere con il network allestito dagli emiri.

Infine Paris Saint Germain (quinto, fatturato 654 milioni) e Bayern Monaco (sesto, fatturato 653 milioni), uguali per cifre, diametralmente opposte per politica e struttura. Bundesliga e Ligue 1 non potranno mai competere con la Premier a livello di diritti tv, quindi entrambi i club sono costretti a puntare sulle entrate commerciali per restare al passo, tanto che quasi il 60% del loro fatturato è determinato dalle sponsorizzazioni. La differenza è che i tedeschi non hanno uno stato sovrano alle spalle, ma possono contare su una rete consolidata composta da azionisti di minoranza (Adidas, Audi, Allianz) e sponsor storici (Telekom, sulla maglia dal 2002). Il PSG è invece la scatola nera finanziaria del calcio europeo: non ha il blasone delle concorrenti, né ha mai vinto una Champions League, né milita in un campionato di grande appeal, eppure schiera stelle di valore assoluto e possiede il portafoglio di sponsorizzazioni più prestigioso del mondo pallonaro (383 milioni di euro). Ma si tratta di un discorso che va oltre i report della Deloitte.

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