Lo smantellamento e la messa in sicurezza degli impianti nucleari italiani, affidate alla commissariata Sogin, procede a rilento e con continui intoppi. E i ritardi nella realizzazione del deposito nazionale, che dovrà definitivamente ospitare 95mila metri cubi di rifiuti radioattivi, hanno effetti devastanti. Parigi, temendo che l’Italia non sia più in grado di riprendersi le scorie inviate in Francia e in altri Paesi negli anni, ha da tempo bloccato le ultime 13 tonnellate di combustibile nucleare irraggiato che, secondo un accordo del 2006, andavano trattate Oltralpe. Restano stoccate nel deposito Avogadro di Saluggia (Vercelli). Sono alcuni dei problemi da risolvere, eredità pesante dell’era nucleare che non impedisce al ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, di insistere sull’energia dell’atomo, puntando sulla quarta generazione. Eppure proprio il ministro, di recente, ha dovuto dare conto dell’ultimo pasticcio che riguarda uno dei siti più a rischio, l’Eurex, sempre a Saluggia. Lì c’è da realizzare, con un’urgenza che dura da decenni, il Cemex, impianto nel quale le scorie liquide saranno mescolate al cemento per solidificarle e renderle più gestibili (e meno pericolose). Storia infinita, segnata da due contratti fallimentari. I motivi dell’urgenza del Cemex li spiega a ilfattoquotidiano.it chi in quel sito ha lavorato. “In termini di radioattività, l’Eurex ospita circa l’80% del materiale rimasto in Italia” racconta Gian Piero Godio, già responsabile dell’automazione e del centro di calcolo dell’impianto e oggi vicepresidente per il Vercellese di Legambiente e di Pro Natura.

Una pesante eredità – Sono una ventina, in Italia, i siti dove è stata fatta attività nucleare di vario genere. Sogin gestisce lo smantellamento delle quattro centrali nucleari di Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (a Sessa Aurunca, Caserta) e degli impianti ex-Enea, il reattore Ispra-1 (Varese), l’Eurex di Saluggia, quelli Opec e Ipu di Casaccia (Roma) e l’Itrec di Rotondella (Matera), mentre la dismissione dell’impianto FN di Bosco Marengo (Alessandria) si è conclusa a giugno 2022. “In vent’anni di vita – aggiunge Godio – le quattro centrali hanno prodotto 93 miliardi di kilowattora, meno di quanto abbia fatto il fotovoltaico negli ultimi quattro anni, ma hanno lasciato una pesante eredità”. Come i frammenti prodotti durante la fissione. “Il 99% è stato portato all’estero, l’1% è in Italia, in luoghi del tutto inidonei – spiega l’esperto – tanto che nessuno di essi rientra nella lista dei siti potenzialmente idonei per ospitare il deposito nazionale”.

Eurex, una bomba ecologica – Quella dell’Eurex è una priorità non solo per una questione di radioattività “ma anche perché l’area più a rischio si trova a 20 metri dalla Dora Baltea, affluente del Po – spiega Godio – e il sito è 1500 metri a monte dei pozzi del più grande acquedotto del Piemonte. Dopo l’alluvione del 2000, infatti, Carlo Rubbia, allora presidente dell’Enea, dichiarò che era stata sfiorata una tragedia di livello planetario”. C’è una terza questione: i materiali sono in gran parte in forma liquida, nonostante già dalla fine degli anni ’70 gli organi di controllo ne avessero imposto la solidificazione entro i 5 anni. Termine slittato nei decenni a suon di ordinanze e decreti ministeriali. Sogin ha iniziato a lavorarci nei primi anni Duemila, trasferendo 270 metri cubi di rifiuti radioattivi (125 ad alta intensità) in serbatoi costruiti negli anni ’60, nell’attesa di realizzare prima il Cemex, per rendere le scorie solide (e più gestibili) e, poi, il deposito nazionale. Nel 2011 ha affidato il compito a un gruppo di imprese, al timone Saipem, per una commessa da 98 milioni di euro. È finita con Sogin che ha risolto il contratto nel 2017 “per manifesta incapacità” e con accuse e richieste di risarcimento reciproche. “Questo dimostra che tra il nucleare teorico e quello pratico – commenta Gian Piero Godio – c’è una grande differenza da tenere in conto, quando si decide se investire sull’energia dell’atomo o su altre fonti infinitamente meno pericolose”.

Ennesimo buco nell’acqua – Nel 2020 Sogin ha bandito una nuova gara, vinta a gennaio 2021 (per 107 milioni) dal consorzio Cemex 2023, anno previsto per la consegna. Capofila Teorema di Napoli e poi Conpat, Infratech e Penta System. Anticipo: 32 milioni. Anche stavolta qualcosa è andato storto. Intanto, a giugno 2022, Sogin è stata commissariata. E il cantiere del Cemex è rimasto fermo per mesi per un errore di progetto: è stata utilizzata la normativa Ped (Pressure equipment directive) per gli apparecchi in cui circolano liquidi in pressione ma, secondo Cemex 2023, trattandosi di tubi e recipienti che vanno omologati e in cui passeranno liquidi radioattivi, occorre rispettare la normativa Vsr (Verifica stabilità recipienti) adoperata dall’Inail. Il consorzio era pronto a correggere, ma l’ok da Sogin non è mai arrivato. “Dall’inizio dei lavori sono stati registrati numerosi, gravi, inadempimenti da parte dell’appaltatore” ha scritto Sogin a dicembre 2022, sostenendo che “l’andamento fisico dei lavori al 17 novembre” fosse pari “a poco più dell’1%” a fronte “di un avanzamento temporale di oltre il 50%”. A gennaio, Pichetto Fratin ha spiegato che la società “sta lavorando a una nuova procedura di selezione” e “ha avviato un programma di ricognizione delle complessità operative e gestionali della società”. Che sono tante. D’altronde Sogin avrebbe dovuto, con un costo di 3,7 miliardi, mettere in sicurezza i rifiuti nucleari degli impianti entro il 2014 e smantellare le centrali entro il 2019. Ma i piani non sono stati rispettati, come denunciato anche dalla Commissione Ecomafie. Nel 2020 il termine per la dismissione è slittato al 2035. Costo previsto: 7,9 miliardi. Nel mezzo è accaduto di tutto, compreso l’addio di Riccardo Casale, di recente nominato ad di Ansaldo Nucleare. Nel 2015, da amministratore delegato di Sogin, denunciò inerzia dei vertici e ritardi delle attività, segnalando “comportamenti privi del minimo senso istituzionale”.

Il nodo delle scorie, senza piani certi sul deposito – Sono passati sette anni e i problemi si sono accumulati. Come quello delle scorie. Di quel 99% dei frammenti prodotti durante le fissioni e portato all’estero “parte è alla British Nuclear Fuels, compagnia proprietaria della centrale di Sellafield, in Gran Bretagna, parte nell’impianto francese di riprocessamento di La Hague, dell’ex Areva (oggi Orano) e parte in Belgio” spiega Godio. In base ai contratti, entro il 2025 dovrebbero rientrare in Italia oltre 1.600 tonnellate di scorie solo dal Regno Unito. Poi ci sono quelle portate in Francia. Un accordo del 2006, prevedeva il trasferimento di 235 tonnellate di combustibile irraggiato entro la fine del 2015. Andavano trattate nell’impianto di La Hague per separare le materie fissili come uranio e plutonio (che la Francia avrebbe potuto riutilizzare) dalle scorie vere e proprie che, entro il 2025, sarebbero dovute rientrare in Italia per essere sistemate nel deposito nazionale. I ritardi e le incertezze hanno spinto Parigi a bloccare tutto già nel 2013, quando restavano da portare a La Hague ancora 13 tonnellate di combustibile radioattivo, da allora bloccate nel deposito Avogadro di Saluggia. Nell’ultimo rapporto annuale, l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione spiega che “non si hanno elementi, né indicazioni in merito a una ripresa delle spedizioni” e che “il rivestimento interno della piscina dove è stoccato il combustibile presenta un principio di deterioramento”. Cosa accadrà nel 2025? “In Regno Unito, Francia e Belgio le normative vietano di importare scorie in via definitiva. Possono farlo per processarle e poi farle rientrare nel Paese di origine. Ma non mi stupirebbe affatto – spiega Godio – se il governo Meloni ottenesse una proroga da questi Paesi, a caro prezzo per l’Italia”.

Il deposito che non c’è – D’altronde Roma non può offrire garanzie. Sono passati due anni da quanto la Sogin ha pubblicato la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi), dieci anni dopo l’incarico. Di 67 aree, dodici (tra le province di Torino, Alessandria e Viterbo) le più ‘accreditate’. “Attenzione, però – commenta Godio – perché già quelle piemontesi sono o sismiche, o alluvionate o presentano la falda acquifera quasi a livello del terreno”. Oggi è pronta, ma non approvata, la bozza della Carta nazionale delle aree idonee (Cnai): i siti idonei sarebbero 57, in sei regioni. Nessuna delle aree indicate vuole ospitare il deposito, mentre il ministro Pichetto Fratin ha chiesto dei chiarimenti a Sogin sui criteri adottati. D’altronde è un periodo complicato per comunicare decisioni importanti: sono vicine le elezioni regionali nel Lazio, regione che conta più di 20 siti tra quelli che sarebbero indicati nell’ultima bozza.

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