Chissà se Giorgia Meloni o i suoi guru della comunicazione lo sapevano, quando hanno scelto come slogan elettorale “Pronti”. Le prime parole che Bill Clinton disse il 20 gennaio 1993, mentre usciva dalla Blair House per andare alla cerimonia d’insediamento sul Campidoglio di Washington, furono: ”Sono pronto”. Colui che stava per diventare il 42° presidente degli Stati Uniti aveva ancora il mug del caffè in mano quando i giornalisti gli strapparono la battuta.

Oggi è il giorno che segna l’anniversario dell’insediamento dei presidenti statunitensi, ed è la metà del mandato del presidente Joe Biden. 730 giorni sono trascorsi dal suo ingresso alla Casa Bianca, dopo il giuramento sulle scalinate del Congresso, e – a voler essere pignoli – 731 giorni mancano, per via del 2024 bisestile, alle fine del suo mandato. Dieci anni fa oggi si insediava Barack Obama, ma era un secondo mandato e la grande emozione, anzi la grande speranza, c’era stata quattro anni prima, nel 2009. Trent’anni fa oggi s’insediava Clinton, il primo presidente democratico dopo 12 anni di presidenti repubblicani (Ronald Reagan e George W.H. Bush). 50 anni fa si insediava Richard Nixon, anche per lui un secondo mandato, già minato, ma ancora non era evidente dal Watergate che lo avrebbe condotto alle dimissioni. E 70 anni fa s’insediava Dwight ‘Ike’ Eisenhower, il generale dello sbarco in Normandia, i cui anni alla Casa Bianca codificarono la Guerra Fredda e videro accendersi e spegnersi il ‘maccartismo’.

Trent’anni fa, William Jefferson Clinton 46 anni, era un presidente giovane – il terzo più giovane nella storia Usa – che sapeva piacere alla gente e che si presentava con un programma che i cronisti dell’epoca definivano “populista”. Populista fu certamente il discorso con cui si presentò promettendo di ”rinnovare l’America” e di ”restituire la capitale al popolo cui appartiene”.

Alle centinaia di migliaia di cittadini che lo applaudivano assiepati sul Mall, il lungo viale che conduce dal Monumento a Lincoln al Campidoglio di Washington, e alle decine di milioni che l’ascoltavano davanti ai televisori, Clinton disse tutto quello che volevano sentirsi dire: assicurò che, in politica interna ed estera, ”sarà fatto tutto il necessario e sarà fatto bene” e che l’America “troverà le risorse” per svolgere nel mondo il ruolo di superpotenza e insieme ridare la prosperità ai propri cittadini.

La gente gli credette, come gli aveva creduto in campagna elettorale, e come, in fondo, continuerà a credergli per qualche anno, fra missioni in Somalia e conflitti nei Balcani, con gli accordi di Dayton, ma anche la guerra alla Serbia, gli accordi di Oslo tra Israele e l’Olp e gli attentati di Nairobi e Dar es Salam che anticipavano – ma nessuno lo capì – l’attacco all’America di al Qaida l’11 Settembre 2001. Un sondaggio accertò che il 57% degli americani era convinto che il nuovo presidente avrebbe governato meglio dei predecessori. E del resto come dubitare di quell’oratore suadente e sornione che, sorridendo, citava John Kennedy e Martin Luther King, i Padri fondatori e perfino Ronald Reagan, senza ovviamente trascurare la Bibbia. Clinton si presentava come l’artefice di un rinnovamento nella continuità: ”Amici cittadini, il nostro momento è venuto, cogliamolo”.

Il neo-presidente tacitò anche chi lo accusava, non a torto, di essere un logorroico inguaribile: il suo discorso inaugurale resta tra i più brevi di tutta la storia americana, 1.557 parole. Più sintetici di lui solo George Washington e Abramo Lincoln. E nella notte dei balli che seguono l’insediamento, Bill, col fiato risparmiato, suonò il sassofono “con maestria, davanti a un pubblico in delirio” riferiscono cronache un po’ compiacenti di quelle ore. Non era mai avvenuto un presidente facesse il musicista agli ‘Inaugural Balls’.

Il ”baby boomer” Clinton, primo inquilino della Casa Bianca nato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, osò l’inaudito. Al suo fianco l’avvocato Hillary Rodham Clinton, la ‘first lady’, già appariva la mente di una coppia in cui lui ci metteva l’empatia e lei le idee. Il principesco abito da sera viola che Hillary indossò ai balli innescò polemiche per i suoi costi – presunti: nessuno li ha mai conosciuti con precisione – subito smorzate dal fatto che i Clinton li pagarono di tasca propria. L’abito è ora esposto al Museo di Storia Americana dello Smithsonian, nella sezione delle ‘first ladies’.

Quando s’installò nello Studio Ovale, dopo il giuramento e il discorso e prima dei balli, Clinton trovò sulla scrivania un biglietto lasciatogli dal suo predecessore. Bush padre se ne andò battuto e “un po’ triste”, ammise il suo portavoce, dopo avere salutato tutto il personale della Casa Bianca, cominciando dalle telefoniste, e avere portato il suo cane a fare un’ultima passeggiata nel parco. Il comportamento di Bush, più che il discorso di Clinton, dice la differenza tra l’America di allora e quella di Donald Trump.

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