“Ehi, per favore, non cominciamo”. Quando bussavo alla sua stanza, Franco Sebastio, l’ex procuratore della Repubblica di Taranto scomparso ieri all’età di 80 anni, fingeva di essere infastidito. Era un teatrino quasi quotidiano. Un rito. Appena varcavo la soglia si rivolgeva ad Angelo, più un amico che il suo autista, e il rito continuava: “Fagli un caffè e toglimelo davanti”. Mi guardava con quel sorriso sornione e poi diceva: “Tanto lo so perché stai qua, ma non c’è niente”. Io cominciavo a fare domande su qualche operazione che avevano messo a segno, ma le risposte erano sempre le stesse: “Se vuoi, posso recitarti una poesia. Oppure ti racconto la mia ultima vittoria a tennis: una perfomance degna di una prima pagina”.

Dal suo ufficio non è mai uscita una notizia. Mai, neppure una. Franco Sebastio era capace di parlarti per ore senza dirti niente che si potesse scrivere. Però leggeva tutto. E quando sbagliavo qualcosa, il nostro rito quotidiano iniziava con “entra scapocchione”: mi spiegava quale errore avevo commesso, poi chiamava Angelo e prendevamo il caffè. Non perdeva mai il sorriso. Anche quando la sua procura era assediata dai giornalisti e i riflettori di tutta l’Italia erano puntati su di lui.

La prima volta successe ad agosto 2010 quando morì Sarah Scazzi e l’Italia scoprì l’esistenza di un paesino chiamato Avetrana. Rispondeva a tutti, con gentilezza, ma non si sbottonava mai. In quei giorni, però, non riusciva a spiegarsi tutta quell’attenzione mediatica: “Sì, è una ragazza di 15 per la quale faremo di tutto per scoprire la verità, ma di omicidi ce ne sono decine in tutta Italia”, ripeteva incredulo. In quegli stessi giorni, i suoi magistrati avevano avviato la maxi inchiesta sull’Ilva di Taranto.

Quando noi della stampa locale scoprimmo che per la prima volta contestava il disastro ambientale e lo scrivemmo, lui chiedeva “come mai i vostri colleghi nazionali non ne parlano? Di questo dovrebbero scrivere, non dei tour dell’orrore che si stanno facendo ad Avetrana”. Il caso Scazzi portò il suo lavoro nei salotti della tv nazionale: la sua procura fu definita da alcuni opinionisti come una procura di seconda serie, abituata a gestire furti di galline e inchieste da quattro soldi. Lui, però, non si scomponeva: “Oh c’è un giudice o no? E allora quando ci sarà la sentenza vedremo chi ha ragione”. Vinse lui: l’accusa di omicidio formulata nei confronti di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano resse in tutti i gradi di giudizio.

Poco dopo quella brutta storia, esplose l’inchiesta Ilva: l’Italia intera tornò a Taranto per raccontare il dramma sanitario e ambientale di questa terra. A tutti i cronisti che incontrava ripeteva: “Vedete che io dall’82 che faccio indagini e la fabbrica viene puntualmente condannata. Non è che ci siamo svegliati oggi”. Il suo accento marcatamente tarantino e il tono canzonatorio rendevano più leggeri anche quei momenti terribili. L’inchiesta sulla fabbrica aumentò la schiera dei suoi detrattori: il suo ufficio fu definito da una parte politica “affetto da talebanismo giudiziario”.

Col tempo però qualcuno cercò anche di tirargli la giacchetta: una mattina mi confidò di aver ricevuto una proposta di candidatura alle elezioni politiche, ma l’aveva rifiutata. “E che faccio? Lascio i ragazzi a fare questa indagine? Non esiste. Io devo essere il loro parafulmine: anche se insultano me, criticano me, non fa niente. Ma questi ragazzi lavorano giorno e notte e non posso abbandonarli”. Quella notizia io la scrissi: andò su tutte le furie. Fu l’unica volta che si arrabbiò sul serio. Poco tempo dopo, durante una cerimonia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, una esponente politico confessò di avergli offerto il posto in lista e di come lui avesse rifiutato per correttezza nei confronti dei magistrati del suo ufficio. “Ehi Fasulo – come mi chiamava scherzosamente – vedi che qualcuno ti ha riabilitato. Contro la mia volontà, sappilo”, disse ridendo.

Poi arrivò il 2015 e il governo di Matteo Renzi che con un decreto obbligò lui e una serie di altri magistrati in tutta Italia ad andare in pensione al 75esimo anno d’età: “Ma ti rendi conto – mi disse quella mattina – che io sono ancora un giovanotto? Il Csm mi ha autorizzato a stare in servizio fino all’anno prossimo e questi mi stanno silurando”. Mi mostrò la lettera che aveva inviato al Csm per ottenere la proroga: aveva davvero scritto che giocava a tennis e che aveva un accordo col buon Dio per mantenerlo in buona salute. Pensavo fosse uno scherzo, pensavo ne avesse stampato una copia finta. Annamaria, più una sorella che una segretaria, mi confermò che era tutto vero: “Almeno quelli del Csm si fanno due risate ogni tanto. Quei poverini fanno solo cose noiose”. Quel pensionamento forzato gli precluse la possibilità di partecipare al processo contro l’Ilva: ecco quella fu la prima volta in cui lo vidi affranto.

Negli anni ci siamo sentiti spesso. Abbiamo commentato la sua breve esperienza politica: “Fasulo, è stato il più grande errore della mia vita”. E poi la nuova vita come manager: “Fasulo, ti rendi conto che potresti finire nel mio giornale? Vedi di non candidarti che sei uno scapocchione”. Intanto il processo Ilva andava avanti. Lo chiamai una settimana prima della sentenza: “Ma davvero serve una sentenza per dire cosa è accaduto a questo territorio? I danni all’ambiente e alla salute sono ormai indiscutibili e confermati dallo stesso Stato che ha varato oltre una decina di leggi per consentire all’Ilva di produrre pur sapendo che inquinava”. E poi quando la sentenza è stata emessa. E anche un mese fa quando sono state depositate le motivazioni: “Che ti devo dire? Ci hanno chiamato in tutti i modi, ma pure stavolta c’avevamo ragione noi. Comunque vedremo l’appello e la Cassazione”. Quando le sentenze saranno emesse, l’avrei chiamato: “Procuratò, hai saputo? Che dici?”. So che avrebbe risposto come sempre: “Fasulo, non cominciare. Che vuoi?”.

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