“L’affluenza alle urne del 12% è migliore del 99% nelle precedenti elezioni, che sono state accolte con favore dai paesi stranieri anche se sapevano che erano truccate”. Con queste parole il presidente tunisino Kais Saied ha attaccato, in uno dei suoi soliti, lunghi monologhi durante la riunione del Consiglio dei ministri del 28 dicembre, chi criticava le elezioni legislative dello scorso 17 dicembre, fortemente volute dallo stesso capo dello stato, in aperto conflitto con tutti i partiti politici, la magistratura e la società civile. L’affluenza alle urne, pari all’11,22%, è stata la più bassa dalla rivoluzione che nel 2011 che ha rovesciato il dittatore Zine El Abidine Ben Ali, segnerebbe un duro colpo per il presidente tunisino e la sua agenda. Saied si è però rifiutato di accettare la sconfitta, scagliandosi contro i dissidenti e i partiti politici che lo avversano, da lui accusati di “annegare nella corruzione e nel tradimento” e di “complottare contro lo Stato” e la sua “sicurezza interna ed esterna”. Accuse alle quali Saied ha aggiunto una minaccia: “Tutto questo non può continuare, e queste persone non possono rimanere impunite”.
La crisi politica ed economica La presa di potere nel luglio 2021, la promulgazione di una nuova costituzione lo scorso agosto e le elezioni parlamentari di questo dicembre fanno tutte parte del programma che Saied sta portando avanti per la creazione di una “nuova Repubblica”. Un programma ampiamente criticato sia dalle ong per i diritti umani che dai governi di altri paesi, non da ultimi gli Stati Uniti. Durante il vertice Usa-Africa che si è tenuto a Washington lo scorso 14 dicembre Kais Saied ha però difeso il suo operato spiegando al segretario di Stato americano Anthony Blinken che il paese nordafricano era “sull’orlo di una guerra civile”. I più grandi partiti politici del paese, emarginati dal processo di transizione voluto da Saied, si sono quindi uniti nel Fronte di Salvezza Nazionale (Fsl), presieduto dall’avvocato e membro del Partito repubblicano Ahmed Najib Chebbi, per contrastare i piani presidenziali. Il Fsl ha infatti boicottato sia il referendum costituzionale che il primo turno delle elezioni legislative chiedendo, dopo i risultati sull’affluenza di queste ultime, le dimissioni del capo dello stato.
All’interno della lotta politica tra i partiti e il presidente tunisino si pone poi l’Ugtt, il più grande sindacato nazionale della Tunisia. Nonostante ancora sostenesse Saied quando decise di chiudere il parlamento nel luglio del 2021, il sindacato ha poi ritirato l’appoggio dopo che il presidente aveva iniziato a governare per decreto, accentrando su di sé il potere legislativo ed esecutivo. Dopo l’uscita dei risultati che mostrano la bassa affluenza al primo turno elettorale, l’Ugtt ha affermato in un comunicato del 21 dicembre che “prende atto del livello molto basso di partecipazione alle elezioni, che distrugge la loro credibilità e legittimità e conferma chiaramente il rifiuto dell’opinione pubblica” del programma di Saied. Il sindacato ha chiesto poi, in un altro comunicato del 28 dicembre, di posticipare i ballottaggi in programma per gennaio 2023 perché “un secondo turno elettorale scatenerebbe il caos”. “Mi aspettavo che dopo la bassa affluenza alle urne, il presidente ammettesse che la strada era sbagliata, ma sta andando avanti con il suo piano”, ha concluso Noureddine Taboubi, segretario generale della sigla sindacale.
Sul fronte economico, il sindacato ha poi minacciato di “occupare le strade” per mostrare il proprio dissenso verso la legge di bilancio che Saied ha fatto approvare per il 2023. “Perché accettiamo questa situazione? Non la accettiamo e occuperemo le strade per difendere le nostre scelte e l’interesse della gente”, ha detto il segretario dell’Ugtt che, con oltre un milione di iscritti, si è dimostrato capace negli ultimi mesi di paralizzare l’economia con scioperi e manifestazioni di massa. Per il 2023 il bilancio tunisino prevede, anche sotto le pressioni del Fondo monetario internazionale con cui ha in ballo un accordo da 1,9 miliardi di dollari, di ridurre il deficit fiscale al 5,2% (da una previsione del 7,7% durante il 2022) e di abbassare la spesa per i sussidi del 26,4%, principalmente in energia e cibo, beni che hanno già visto un rialzo dei prezzi nelle scorse settimane. Dicembre ha visto infatti un aumento del prezzo dell’acqua potabile fino al 23% e il governo prevede, nei primi mesi del nuovo anno, di “aumentare frequentemente” il prezzo del carburante per sopperire al crescente deficit energetico nel paese.
Limitazione dei diritti a politici, magistrati e stampa In una dichiarazione congiunta rilasciata il 27 dicembre, 28 ong (tra cui il sindacato dei giornalisti Snjt, l’Associazione tunisina per i diritti e le libertà e l’Organizzazione tunisina contro la tortura) hanno accusato l’Alta Autorità Indipendente per le Elezioni (Isie) di “agire come una forza di polizia che censura l’opinione pubblica e i media”. Nel comunicato, le ong affermano che l’Isie ha “preso di mira la libertà di espressione al punto da effettuare censurare le organizzazioni dei media, in palese violazione della legge”. La scorsa settimana, l’Agenzia governativa aveva infatti presentato 24 denunce contro media, giornalisti e blogger, accusandoli di “insulti, attentato alla dignità degli elettori, diffusione di notizie false e ricezione di fondi dall’estero”. I presunti reati contestati dall’agenzia governativa riguardano il in particolare voto di luglio, con il quale i tunisini erano chiamati ad approvare la nuova costituzione. “Troviamo strano che l’Isie non fosse interessata alla trasparenza del processo elettorale e a garantire elezioni corrette e libere”, quando invece concentrava i propri sforzi sul “monitoraggio delle opinioni delle persone, imponendo la censura, perseguendo coloro che hanno opinioni discordanti” con il governo, concludono nel loro comunicato le ong.
Intanto lunedì 20 dicembre un giudice ha ordinato l’arresto dell’ex primo ministro Ali Larayedh, vicepresidente del principale partito anti-Saied, Ennahdha. L’accusa è di aver “inviato militanti del partito a combattere a fianco di gruppi armati in Siria” e quindi di terrorismo internazionale. Ennahda ha negato le accuse, definendolo un attacco politico a un avversario del presidente Kais Saied per nascondere “il catastrofico fallimento delle elezioni”. Stessa accusa al presidente arriva anche da parte del presidente del Fronte di Salvezza Nazionale, Ahmed Nejib Chebbi, che ha spiegato ai giornalisti che l’arresto era inteso “a distogliere l’attenzione dai risultati di un’elezione ignorata dall’opinione pubblica”. Il 23 dicembre sostenitori del movimento islamista hanno manifestato davanti alla sede del ministero della Giustizia chiedendo il rilascio dell’ex primo ministro. Episodi simili sono aumentati negli scorsi mesi, ponendo non pochi interrogativi sul rispetto dei diritti umani dopo la presa del potere di Saied. Lo scorso giugno la polizia aveva infatti arrestato un altro ex premier e dirigente di Ennahda, Hamadi Jebali, con l’accusa di riciclaggio di denaro.
Il 28 dicembre la Procura della Repubblica ha chiesto al Consiglio superiore della magistratura di revocare l’immunità a 13 giudici in modo che possano essere processati con l’accusa di terrorismo. L’avvocato difensore dei giudici, Ayachi Hammami, ripreso dal giornale The New Arab, ha descritto il caso come “puramente politico”. La mossa arriva quasi sette mesi dopo che il presidente Saied ha licenziato 57 giudici, accusandoli di cospirazione e di aver ostacolato processi su casi di terrorismo. All’atto di emanazione del decreto per la rimozione dei togati dal loro incarico, il presidente aveva spiegato che “un’epurazione totale del sistema giudiziario resta ormai l’unica opzione per sradicare la corruzione nel Paese”. 49 giudici, tra cui i 13 ora sotto processo, erano stati poi reintegrati nel mese di agosto, ma il prossimo 24 gennaio dovranno comparire davanti al Csm per la decisione finale. A febbraio Saied aveva sciolto il precedente massimo organo giudiziario del paese, sostituendolo con l’attuale Csm, i cui membri sono scelti dal presidente stesso e hanno il potere di licenziare qualunque magistrato senza possibilità di appello. A giugno, alla vigilia della rimozione dei 57 giudici, Saied aveva poi emesso un decreto che rafforzava il suo controllo sul Csm, rendendolo di fatto un organo consultivo e completando l’accentramento dei tre poteri sulla sua persona.
Twitter: youssef_siher
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