di Claudia De Martino

Il sesto governo Netanyahu non si è ancora insediato e già suscita una profonda diffidenza nella diaspora per la proposta avanzata dai partiti religiosi di riformare la “Legge del Ritorno” in senso maggiormente restrittivo. I tre partiti religiosi al governo – i due partiti ultraortodossi UTJ, il Partito Unito della Torah, e Shas, il partito haredi mizrahi, insieme al partito dei Sionisti Religiosi (ha-Zionut ha-datit), oggi fortemente in crescita – hanno infatti annunciato la loro intenzione di emendare la “Legge del Ritorno” nella sua versione del 1950, successivamente modificata nel 1970, che attualmente prevede il conferimento immediato – nell’arco di 24 ore dall’ingresso nel Paese – della nazionalità israeliana a tutti coloro che desiderino immigrare in Israele, che non pratichino già altra religione e vantino almeno un nonno (un parente di terza generazione) o un coniuge ebreo, anche se non considerati tali secondo la legge biblica (halachà, ovvero per via matrilineare).

I tre partiti religiosi sostengono, infatti, che vi sia una quota crescente di nuovi immigrati, soprattutto provenienti dai Paesi dell’ex Urss e in particolare dall’Ucraina (sarebbero 75.000 solo nello scorso anno gli Ucraini arrivati nel Paese), che non sono effettivamente ebrei né si sentono tali, ma che sfruttano le maglie larghe della “Legge del Ritorno” per emigrare in Israele, considerato un posto sicuro, un Paese politicamente stabile e dall’economia fortemente attrattiva, che in più finanzia tutte le spese relative al trasferimento, al ricollocamento e all’alloggio dei nuovi migranti nel Paese. Tali partiti lamentano infatti che, in presenza di una quota così considerevole di non-ebrei nelle ultime ondate migratorie (pari al 50%), la tenuta sociale del Paese possa essere a rischio nel lungo periodo a causa della loro mancata integrazione nel tessuto sociale israeliano.

Al contempo, questi stessi partiti non desiderano incentivare la loro conversione religiosa all’ortodossia, impendendo di fatto a quei nuovi cittadini russi o ucraini, bollati come non ebrei ma già presenti nel Paese, di sposarsi legalmente con altri concittadini in assenza dei requisiti religiosi per farlo, ma anche in assenza di alternative laiche, ovvero dell’introduzione del matrimonio civile, a cui sono fortemente opposti. Circa 500.000 persone si troverebbero oggi in Israele in questa difficile situazione di sospensione tra due mondi: detentrici della cittadinanza israeliana, non potrebbero, però, beneficiare di diritti minimi come la libertà di sposarsi in patria ed essere sepolte nei cimiteri di Stato, anche se pagano regolarmente le tasse e svolgono il loro servizio militare.

Esiste, dunque, un ampio divario nelle definizioni concorrenti dell’identità ebraica date dallo Stato, per quanto riguarda il conferimento della cittadinanza, e dal Gran Rabbinato, per quanto riguarda la possibilità di espletare i riti di passaggio della vita in Israele senza essere soggetti a discriminazioni. Un divario che la nuova proposta dei partiti religiosi vorrebbe colmare, portando anche lo Stato ad adottare la definizione più restrittiva del Gran Rabbinato ultraortodosso, riconoscendo in materia di legge il primato dell’interpretazione rabbinica già maggioritaria e vincolante in Israele e, possibilmente, limitando la possibilità di conversioni non ultraortodosse, anche se attualmente ammesse dalla Corte Suprema (secondo la storica decisione del 2 marzo 2021).

A questa revisione si oppongono soprattutto quei gruppi, come gli ebrei masoretici o conservatori e gli ebrei della Riforma, che appartengono ad altre confessioni ebraiche diverse dall’ortodossia, che vedono positivamente la conversione e l’ingresso di nuovi membri nelle loro fila e temono meno l’assimilazione e la contaminazione con altre fedi religiose, auspicando il pluralismo tra le diverse confessioni ebraiche e una serena coesistenza con i laici. Riformatori e conservatori sono, però, meno del 7% in Israele e, dunque, un “epifenomeno”, come dichiarato da Nathan Zauberman, rappresentante francofono del partito Sionista religioso, mentre le percentuali si invertono drammaticamente nel caso delle comunità della diaspora e, soprattutto, della influente comunità ebraico-americana, per oltre l’80% identificata con queste due correnti.

Sulla questione della riforma della Legge del Ritorno si delinea, dunque, uno scontro tra le visioni e gli interessi di due comunità ebraiche – quella israeliana e quella americana, che insieme rappresentano la maggioranza dei 15,3 milioni di ebrei al mondo, con rispettivamente 7 milioni in Israele e 7,6 milioni negli Usa -, che gradualmente evolvono in due direzioni antitetiche, simboleggiate dalle immagini contrapposte nella politica Usa di uno Stato, Israele, che si tinge sempre più di un “rosso repubblicano”, aggressivamente nazionalista, e di una comunità ebraico-americana tradizionalmente liberal, dunque democratica, e oggi sempre più a sinistra, spostata su posizioni antidogmatiche in materia religiosa ma anche crescentemente critica dell’occupazione dei Territori e sensibile alle condizioni di vita e ai diritti dei Palestinesi.

Dietro questa battaglia di definizioni, tutta interna all’ebraismo, si gioca la questione dei rapporti tra lo Stato di Israele e la diaspora, ma anche la tentazione di una parte dei partiti religiosi di destra, fortemente rappresentanti in questo nuovo governo, di affermare un esclusivismo ebraico in materia di diritti e religione che rompa con la tradizione liberal-democratica occidentale e che proponga un modello di società diversa, dai valori autoctoni, fortemente coesa e collettivista al proprio interno, ma del tutto incapace di tollerare le minoranze, incluse quelle ebraiche, in nome di un diritto assoluto a governare della maggioranza e di una concezione distorta della democrazia.

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