La condizione di disabilità non prende permessi, ferie, non conosce riposi o turni. Essa vive lì a ogni respiro anche quando il respiro stesso va assistito e garantito. Nonostante le battaglie acerrime per rivendicare il diritto a una vita autonoma, indipendente, nel rispetto di semplici basilari regole che garantiscano dignità, decoro, pudore a tuti gli esseri umani senza discrimine di alcun genere, abbiamo ancora bisogno di ricordare alle cooperative che la disabilità non va in vacanza.

Quando si dichiara di possedere i requisiti per essere convenzionati all’Ente statale si dichiara di avere risorse, competenze, professionalità, danari e gestioni necessari a soddisfare i requisiti minimi della convenzione che si sottoscrive. E invece siamo ancora al punto in cui la domenica non abbiamo il sevizio, il sabato anche no, l’indirizzo di residenza è scollegato e allora sommiamo le ore e ammucchiamo perdite di soldi su interventi non richiesti e totalmente inutili.

Alterniamo operatori che intervengono su disabilità gravissime senza essere formati e informati sul caso. Inviamo operatori sociosanitari che non sanno nulla della realtà in cui dovranno accudire qualcosa che va oltre un ausilio, un tubo, una peg, una fiala e che è l’essere umano – e anche la famiglia di esseri umani che deve ogni volta affidare il suo caro a gente che misura e conta ausili e frazioni di ora, ma raramente si rende conto di quanto sia stato cruento il percorso.

Non è una responsabilità della cooperativa e naturalmente non lo è degli operatori se non si riesce a fornire il sevizio richiesto. La responsabilità è del mancato controllo. La responsabilità è della assenza culturale del concetto di inclusione sociale. Accudire una persona e assisterla non toglie il diritto di vivere nel mondo, ma deve, al contrario, partecipare a garantirlo, questo bel diritto, tanto fondamentale quanto disatteso. Problemi che sono figli della forte arretratezza del nostro sistema. Della totale incapacità di vivere nell’ottica dell’autonomia da parte di un servizio socio assistenziale, che deve assistere per favore e aumentare il libero arbitrio e il potere di esercitare scelte su se stessi, anche in presenza di gravissima disabilità.

E invece si scivola su una crisi autistica, su un peso, su una manovra e ogni disabilità gravissima che necessita del doppio operatore vede dimezzare il diritto. Perché il nostro stranissimo paese, se hai il doppio del bisogno, non ti raddoppia le ore. Gli operatori lavorano per ore che non servono neanche tutte, col risultato che le ore a disposizione diventano la metà. Non ti lavi come una persona con disabilità meno grave. Ti lavi la metà.

Non ti sposti e non ti cambi catetere o pannolone al bisogno reale, quello delle ore iniziali. No. Fai tutto per la metà. Non ti cambiano la posizione se sei più grave, così magari le piaghe sono sotto controllo. No. Se sei molto grave vengono in due per la metà del tempo. Così ti aggravi, perdi dignità, salute e costi anche di più. Ma questo lo Stato non lo capisce o forse fa finta o forse quel bando è solo un “copia e incolla” che nessuno ha letto mai davvero.

Ancora si ha paura della forma di contributo di assistenza indiretta: ricevo i soldi, assumo i miei operatori e mi autodetermino il servizio che realmente mi garantisce il benessere. E tra le altre cose conti alla mano lo Stato spende la metà. No. Non ci piace. Lo stato paga in ritardo i rimborsi in moltissimi casi. E quindi quello stesso stato che paga stipendi il 27 del mese a tutti i propri dipendenti come è giusto che sia tarda il rimborso (attenzione: il rimborso per esigenze riconosciute di vita indipendente per gente totalmente non autosufficiente) a chi è più fragile.

Lo scrivo ancora più netto. Perché è davvero inaccettabile. Se il signor tizio affetto da grave disabilità viene riconosciuto avente diritto di un contributo per assistenza alla persona, vuol dire che non è un ricchissimo signor benestante. Egli, dopo aver assunto il proprio operatore, lo pagherà anticipando la spesa. Lo Stato che fa? Lo pone nella condizione di avere i danari assegnati e vivere serenamente la sua già complessa e difficile necessità assistenziale? No. Lo Stato tarda. Così lui trasferisce pensione e accompagno all’operatore e campa con il danaro dei parenti se li ha o con gli aiuti umanitari al povero disabile, che poi diventa il solito peso sociale e assistenziale agli occhi del perbenista che dona i 5 euro al banchetto e poi detesta ogni forma di assistenza che degrada all’assistenzialismo senza mai approfondire, ma semplicemente rifiutando un mondo ove si fa indubbiamente fatica a comprendere nella pienezza delle ingiustizie sociali.

E allora accetta, suo malgrado, la cooperativa che costa il doppio e che se è davvero tanto grave gli dimezza le ore. Però non deve anticipare la spesa e non rischia di non avere da mangiare. E c’è chi la chiama scelta. Assurdo vero? Hanno il coraggio di dire che il cittadino con disabilità ha scelto la cooperativa. Oltre il danno la beffa. Il lavoro delle cooperative è essenziale e deve permanere, ma vanno davvero stravolti i parametri di contorno e di riferimento.

Siamo quasi a Natale, gli operatori vanno in ferie. E’ un diritto e va rispettato. Siamo quasi a Natale e i disabili rimangono disabili e la condizione di disabilità non va in ferie. Essi vorrebbero vivere. E’ un diritto. Ma nessuno lo rispetta. Poi però siamo tutti cristiani buoni e benefattori quando la gente disabile, gravissima, immobile, non autosufficiente, urla e pretende il diritto di morire. Magari poter esercitare il diritto di vivere sarebbe un valido strumento per non sognare il diritto di morire come esercizio della propria libertà. Si deve arrivare a chiedere un solo gesto estremo per poter decidere di andare via.

Non mi sento di dire se sia giusto o sbagliato. Ma certamente chiunque deve poter scegliere tra vivere e morire. E senza assistenza il primo colpevole è chi determina la disperazione di chi soffre talmente tanto la privazione delle condizioni minime di vita dignitosa che sceglie di voler morire. E tutti questi bravi pensatori filosofeggiano la cruda realtà di piaghe che sanguinano fino all’osso, di infezioni, di tracheo, di peg e di esigenze che non conoscono chiacchiere. E non ammettono scuse. E non conoscono ferie.

E a volte il senso di impotenza e di frustrazione di noi caregiver è così impetuoso, devastante e impietoso che chiedere di morire è il solo gesto di autonomia che il disabile chiede per urlare “ti amo” a chi ama davvero. Ma l’epitaffio lo firmano tutti quelli che non hanno coraggio e polso da pretendere il rispetto di un diritto. Purtroppo non bastano luci e palline per fare il Natale. Facciamo anche i fatti. Che in ferie si può andar anche a gennaio. Costa meno e arricchisce la morale, che poi la ruota gira e certe cose viste da dentro fanno male davvero.

È pazzesco dover richiedere sempre aiuto nei momenti che per il mondo sono di festa. Ma cosa ci vuole a fare dei turni? Ma cosa ci vuole a mettere condizioni sui contratti? Apriamo i centri commerciali per lo shopping e il consumismo e non riusciamo a garantire i servizi domiciliari? Spero in tanti piccoli regali di Natale a noi stessi. Che ognuno di noi si possa regalare un piccolo gesto giusto per crescere e per stare meglio.

Buon Natale e buon diritto alla vita. Sempre. Perché rivendicare il diritto al fine vita deve passare dalla vita vera e vissuta nel rispetto della dignità umana senza nessuna pecetta.

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