Il 5 dicembre, per la prima volta, un giudice libanese ha applicato la legge contro la tortura del 2017: cinque funzionari dei servizi di sicurezza sono stati incriminati per la morte del rifugiato siriano Bashar Abdel Saud.

Saud era stato arrestato nella sua abitazione della capitale Beirut il 30 agosto ed era morto il giorno dopo a seguito di un violentissimo pestaggio. Il 3 settembre i familiari avevano ricevuto una telefonata da un funzionario dei servizi di sicurezza, che chiedeva loro di recarsi nel quartier generale di Tebneen, nel sud del Libano, per recuperare la salma.

Di fronte allo scandalo provocato dalle immagini del corpo torturato di Saud, i servizi di sicurezza avevano diffuso una serie di dichiarazioni contraddittorie: arrestato per il possesso di una banconota falsa da 50 dollari, l’uomo sarebbe stato uno spacciatore di Captagon e, infine, anche un terrorista dello Stato islamico.

Perché la legge sulla tortura faccia per la prima volta il suo corso, sarà ora necessario che i cinque funzionari rinviati a giudizio siano processati non in corte marziale bensì presso un tribunale ordinario, come prevede il diritto internazionale nei casi in cui gli indagati siano militari ma la vittima sia un civile.

Negli ultimi anni sono state presentate decine di denunce di tortura, soprattutto ai danni di rifugiati siriani. Un caso però ha coinvolto anche il noto attore Ziad Itani. È proprio a causa dello strapotere dei tribunali militari che le indagini per tortura non sono finora mai andate avanti.

La speranza è che la vicenda di Saud possa incrinare il muro dell’impunità.

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