Giriamo a vuoto nella lotta ai cambiamenti climatici e ai disastri ambientali che, giorno dopo giorno, ci colpiscono ogni volta più gravemente. Siamo impegnati in girotondi inutili perché non abbiamo il coraggio, la forza, la radicalità necessaria per andare al cuore del problema: cambiare l’intero sistema economico, cambiare tutte le nostre abitudini, cambiare i meccanismi con cui si costruisce una legge di bilancio in Italia, così come negli altri paesi europei e del mondo.

Le nazioni, come le aziende, dovrebbero incorporare nei loro bilanci l’inquinamento e il degrado ambientale. Invece sia gli Stati economicamente avanzati che le multinazionali esternalizzano i loro delitti ambientali, fanno fare il lavoro sporco alla Cina, all’India, ad alcuni stati africani e sudamericani e fanno agire le loro filiali non ufficiali in giro per il mondo.

Il vero debito che abbiamo con gli abitanti del pianeta e con le future generazioni non viene contabilizzato da nessuno. Il debito ambientale, la nostra impronta ecologica è carta straccia per le banche, per il fondo monetario internazionale, per la banca europea e la banca mondiale. Eppure in questo mondo al contrario l’impronta ecologica sarebbe l’unica cosa che conterebbe misurare con puntualità per tutti.

Nel mondo in cui abbiamo deciso di salvare noi stessi e il pianeta, le banche avrebbero per ognuno di noi, per ogni multinazionale, per ogni stato un conto aperto dove i crediti provengono dalle nostre azioni in favore dell’ambiente, della biodiversità, della cura, del benessere e delle vite salvate; mentre le spese, le uscite, dovrebbero misurare ogni nostra azione che produce inquinamento, ogni riduzione delle specie viventi su questo pianeta, ogni rifiuto prodotto, ogni consumo, ogni ora lavorata che affama le risorse esauribili ad una velocità maggiore di quella necessaria a rigenerarla.

In Europa gli stanziamenti per la lotta ai cambiamenti climatici iniziano a diventare significativi, ma rischiano di finire in un recipiente bucato che è il nostro sistema economico e sociale, il nostro sistema produttivo e consumistico, le nostre regole di bilancio, la nostra spinta sul Pil e sulla crescita dei conti in banca di multinazionali e miliardari. Nel frattempo l’Italia non si è ancora dotata di un Piano nazionale per l’energia e il clima (Pniec) in linea con quanto deciso dal Consiglio Europeo nel dicembre 2020, che ha stabilito un nuovo obiettivo vincolante di riduzione interna netta delle emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990 (elevando il precedente obiettivo del 40%).

“Pronti per il 55%” (Fit for 55%) è il pacchetto di proposte legislative del 14 luglio 2021 che la Commissione europea ha presentato per rivedere la normativa dell’Ue in materia di riduzione delle emissioni climalteranti, energia e trasporti, per consentire il raggiungimento del nuovo più ambizioso, ma drammaticamente irrinunciabile e necessario obiettivo al 2030.

Bisogna intervenire sull’energia, sul trasporto aereo, sull’industria ad alta intensità energetica e per gli stati c’è da definire tutta la strategia dei trasporti (ad eccezione dell’aviazione e dei trasporti marittimi internazionali), dell’edilizia, dell’agricoltura, degli impianti industriali (a minore intensità energetica) e dei rifiuti. Bisogna agire per ridurre l’impatto delle nostre attività sul suolo, compreso quello prodotto da agricoltura e allevamento, e tassare le energie in funzione delle prestazioni ambientali.

La commissione europea finalmente fa luce sull’inquinamento prodotto dagli stati europei nei paesi terzi e vuole mettere nel prezzo delle merci questo costo ambientale e creare un fondo sociale per garantire aiuto ai redditi medio bassi, che non devono essere colpiti dalle ricadute delle nuove direttive ecologiche. Apprezzo la buona volontà, ma sarà tutto inutile ed è anche tutto maledettamente ipocrita se il Consiglio europeo, il Parlamento o la Commissione europea – dopo la sospensione fino al 2023 delle regole di bilancio europeo – continuerà ad usare il Pil e il debito finanziario come indicatori fondamentali su cui costringere la programmazione economica annuale di ogni Stato.

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