“Perché da quasi vent’anni in Italia non c’è più una campagna di informazione e prevenzione sull’Aids? Perché non si fa nulla per sensibilizzare le persone che hanno avuto rapporti a rischio e convincerli a sottoporsi al test anti-Hiv?”. Lo chiede Vittorio Agnoletto, medico, già presidente della Lega Italiana Lotta all’Aids (Lila), oggi docente di Globalizzazione e politiche della salute all’Università Statale di Milano e attivista di Medicina democratica. “Inoltre gli ambulatori per le malattie a trasmissione sessuale sono pochissimi”. Ma se lo Stato spende poco o nulla in prevenzione – ragiona Agnoletto – finisce per spendere molto nelle cure.

Che cosa ci dicono i dati italiani, in questa 41esima Giornata mondiale contro l’Aids?
Ci dicono che quasi 5 persone si infettano ogni giorno. Nel 2021 ci sono state 1.770 nuove diagnosi, cioè tre ogni 100mila abitanti, contro le 1.303 del 202o, pari a 2,2 per ogni 100 mila abitanti. Certamente l’aumento è in parte spiegabile con la riduzione della vita sociale e quindi anche dei rapporti sessuali nell’anno del Covid e del lockdown, ma questo non toglie che siamo di fronte a numeri rilevanti.

Secondo lei potrebbero essere abbassati?
Queste 1.770 persone faranno terapia per tutta la vita a carico dello Stato, visto che per fortuna la cura dell’Aids in Italia è gratuita. Anche volendo guardare al solo aspetto economico, lo Stato spenderebbe molto meno investendo in campagne di informazione. Invece la prevenzione è scomparsa. E teniamo conto che i venti-trentenni di oggi sono nati in anni in cui di Aids si parlava già molto poco. Insomma, ne sanno poco o nulla. Perché a scuola non si fa più informazione su questo, né educazione sessuale?

I dati 2021 confermano la prevalenza di contagi per rapporti fra eterosessuali, ma la quota di infezioni originate da rapporti omosessuali maschili resta comunque considerevole.
Il 44% delle nuove diagnosi 2021 riguarda contatti eterosessuali, il 39,5% rapporti sessuali tra uomini, mentre quelle legate alle droghe iniettive sono una minima parte, il 4,2%, dati i cambiamenti intervenuti negli anni nel consumo di droga. Questo ci dice che bisogna sostenere economicamente le associazioni del mondo Lgbtq+: la prevenzione sanno farla bene, con il linguaggio giusto, ma non hanno i fondi. Lo Stato dovrebbe sostenerle in questo, come avveniva in passato.

La mancata prevenzione ha effetti concreti sulla salute delle persone?
Sempre dai dati 2021 vediamo che il 63,% delle nuove diagnosi sono arrivate quando quelle persone erano già in Aids, cioè erano in fase di patologia conclamata con disturbi e sintomi. Questo è un altro effetto della mancanza di campagne che spingano le persone a fare il test dopo un rapporto a rischio. Unaids, l’organismo dell’Onu per la lotta all’Aids, raccomanda di iniziare le terapie appena accertata la sieropositività, invece questo dato dice che troppo spesso si perde tempo. Poi naturalmente chi non sa di essere sieropositivo userà meno precauzioni nei rapporti sessuali, con evidenti ricadute per la salute pubblica. Basterebbe davvero poco per fare una semplice campagna di promozione il test anti-Hiv.

Perché la diagnosi precoce è così importante?
Un altro motivo rilevante è che la terapia antiretrovirale, negli anni, può portare a un abbassamento della carica virale tale che il virus non è più trasmissibile. L’evidenza scientifica è netta, tanto che esiste una formula: “undetectable = untransmittable“. Significa che se la carica virale di una persona si è abbassata al punto di non essere più rilevata dal test, questa persona non sarà più in grado di infettare altri. Quindi la diagnosi precoce porta a vantaggi individuali – pensiamo solo alla ricaduta sulla vita intima – e sociali.

Lei fa spesso le pulci al sistema sanitario lombardo, anche durante il Covid. Come lo giudica sulla lotta all’Aids?
I centri per le patologie a trasmissione sessuale sono ridotti al minimo e con personale scarsissimo. Ma il tema più rilevante è la protesta messa in scena, proprio alla vigilia di questa Giornata mondiale, dalle associazioni che gestiscono le 23 case alloggio della Lombardia che accolgono i malati di Aids in fase avanzata e con diverse patologie in corso. Le rette delle convenzioni con la Regione sono ferme al 2005 e non sono mai state aggiornate. Le case alloggio rischiano la chiusura, finirebbero per strada 250 persone non autosufficienti.

Allarghiamo lo sguardo. Secondo lei qual è il tema più rilevante su questo fronte a livello globale?
Su 1,68 milioni di bambini e ragazzini sotto i 15 anni, solo 878 mila hanno ricevuto terapie antiretrovirali, circa la metà. Parliamo soprattutto dell’Africa. Il 41% dei sieropositivi sotto i 14 anni non sa neppure di esserlo. Purtroppo molti di loro sono destinati a morire. L’Unicef dice che, nonostante i bambini e giovani fra 0 e 19 anni rappresentino solo il 7% delle persone che vivono con l’Hiv, in quella fascia si registra il 17% dei decessi legati all’Aids. Ogni giorno muoiono di questa patologia 301 bambini, e 850 si contagiano.

Soprattutto in Africa sono essenziali i fondi provenienti dai Paesi ricchi. Il Covid li ha ridotti?
Non dimentichiamo che già nel 2021 l’Organizzazione mondiale della sanità e Unaids hanno lanciato un appello per segnalare che l’emergenza Covid stava schiacciando gli interventi contro l’Aids. I donatori internazionali, infatti, hanno dirottato sulla pandemia i fondi anti Hiv. È un problema enorme perché in diversi Paesi africani la possibilità di impiegare gli antiretrovirali si basa sulle donazioni. Quei Paesi fanno i piani sanitari basandosi sulle donazioni, se il flusso cala i programmi si interrompono a metà. Il meccanismo è quello delle donazioni legate, cioè vincolate a un determinato utilizzo.

Che problemi comporta vincolare i fondi a una specifica “emergenza”? E quale sarebbe l’alternativa?
Una volta andai a visitare il carcere di Lima per conto del Fondo globale per la lotta all’Aids, Tbc e malaria. Per la cura dei detenuti c’erano i farmaci antiretrovirali, ma non gli antibiotici. Risultato: i sieropositivi vivevano, ma altri morivano di polmoniti o di complicazioni influenzali. È la conseguenza di quanto la salute sia in mano al privato. I fondi dovrebbero essere dati all’Oms, lasciando libera quest’ultima di decidere come destinarli al meglio. Ma le donazioni fatte su alcune patologie fanno più scena.

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