Mai, come nei tempi recenti, si è fatto un uso altrettanto smodato della parola “diritti”. Non passa giorno senza che qualcuno ci rammenti l’importanza dei diritti, rivendichi (per lo più da sinistra) la sua attenzione per i diritti, invochi un più rigorosa vigilanza sui diritti, accusi la propria controparte politica (generalmente la destra) di non essere sufficientemente sensibile ai diritti. Ciononostante, assai poco si ragiona sulla natura di questi.

E ancor meno ci si interroga sul perché tale sostantivo, declinato al plurale, sia di regola orfano di una aggettivazione qualificativa. Altrimenti detto, di quali diritti parliamo quando discutiamo di “diritti”? Ovvero, a quali diritti fa riferimento chi si erge a paladino dei “diritti”? Potrebbe sembrare una domanda oziosa, ma non lo è affatto. È sufficiente provare ad abbozzare una risposta per averne contezza. Si tratta dei diritti “naturali”? Oppure dei diritti “universali”? O, ancora, dei diritti “costituzionali”?

Ammesso e non concesso, beninteso, che vi sia un unanime consenso quantomeno su tali specificazioni del termine in questione. O magari, allorquando – soprattutto nell’area sedicente progressista – si dibatte (o ci si infervora, addirittura) sui diritti, si intende qualcosa di diverso rispetto a quelli naturali, universali, costituzionali poc’anzi menzionati? Forse è proprio così. Forse, la maggioranza di chi si occupa dei (e si preoccupa per i) diritti, pensa a quelli cosiddetti “nuovi” o, per usare il gergo dei filosofi del diritto, di “terza generazione”: venuti alla ribalta dopo i diritti di libertà e di proprietà e anche dopo i diritti al lavoro, all’assistenza, al welfare eccetera.

E probabilmente, talvolta, chi non specifica di quali diritti sta discorrendo, lo fa col malizioso intento di assimilare tout court i “nuovi” diritti a quelli “vecchi”, per così dire, nella speranza di far assumere agli uni, per osmosi, la stessa cifra di “naturalità” e “universalità” degli altri. Ma c’è un’altra pista di riflessione suscitata dalla pluriforme valenza semantica del vocabolo di cui ci stiamo occupando; una pista meno evidente di quelle succitate, ma altrettanto degna di nota. Essa attiene a un fenomeno in atto da qualche lustro, nettamente accelerato negli ultimi anni di crisi economiche, ambientali, pandemiche e, va da sé, sociali.

Ecco di che si tratta: i diritti, da prerogativa specifica dell’individuo singolo (dell’essere umano preso nella sua irriducibile unicità) stanno via via acquisendo una dimensione “collettiva”. Come se si stesse imponendo l’idea che ci sono dei diritti spettanti alla “specie uomo” prioritari sul piano logico e sovraordinati sul piano gerarchico, se paragonati a quelli dell’uomo “atomicamente” considerato.

Avvalora questa ipotesi il brano datato, ma illuminante, di un giurista di chiara fama, Angelo Falzea (convinto europeista). Egli, in un suo scritto risalente addirittura al 1971 (Natura e diritto), evidenziava “la necessità di un incisivo processo di adattamento dell’ordinamento giuridico internazionale perché gli egoismi particolari trovino composizione in un superiore egoismo universale legato alla sopravvivenza dell’intero genere umano”.

Una conferma di tale tendenza, sul piano del diritto positivo, la abbiamo dalla recentissima modifica della prima parte della Costituzione (nota bene: riformare i primi cinquantaquattro articoli della suprema carta era considerata, fino a pochi anni fa, una pura eresia). Mi riferisco al “ritocchino” dell’articolo 41 così “arricchito” nel 2022 (in corsivetto le parole di nuovo conio): “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l‘utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Attenzione: non sto dicendo che tale prospettiva salutista ed ecologica sia sbagliata di per sé. Semmai metto in guardia sugli effetti potenzialmente nefasti di un evidente salto di paradigma nella concezione dei “diritti” umani come classicamente intesa. I diritti “tradizionali” rischieranno sempre più, nel prossimo futuro, di essere sacrificati sull’altare di “dimensioni” diverse dalla persona umana.

Certe fanatiche derive ambientaliste e taluni eccessi che abbiamo alle spalle (per ora) nella gestione emergenziale della pandemia possono in parte rendere l’idea di quanto ci attende. Ma ove ciò non bastasse potrebbe rivelarsi utile la rilettura di un saggio di Aldous Huxley del 1958 (Ritorno al mondo nuovo): “Presupposto fondamentale è questo: il complesso sociale ha maggiore importanza e significato delle parti individuali; le differenze biologiche innate debbono sacrificarsi all’uniformità culturale; i diritti della collettività vengono prima di quelli che nel diciottesimo secolo si chiamarono Diritti dell’Uomo”. Straordinaria polaroid dei tempi a venire scattata con circa sessant’anni di anticipo.

PERCHÉ NO

di Marco Travaglio e Silvia Truzzi 12€ Acquista
Articolo Precedente

Quello che conta nella vita

next
Articolo Successivo

Reddito di cittadinanza, tra Edoardo e Giorgia chi è più illuminato?

next