Si sono ormai trasformate in sommosse, se non nell’immediata anticamera di una rivoluzione, quelle che quasi due mesi fa erano iniziate come l’ennesimo ciclo di proteste nella Repubblica islamica dell’Iran, all’indomani della morte di Mahsa Amini, la 22enne deceduta mentre si trovava nelle mani della Gasht-e Ershad, la polizia morale, dopo l’arresto per aver indossato male il velo. Secondo i dati del Human Rights Activists News Agency (HRANA), fondato nel 2005 da alcuni attivisti al di fuori del territorio iraniano, al 17 novembre sono almeno 248 i manifestanti uccisi nel corso delle repressioni da parte della polizia e dai Basiji, mentre ammontano almeno a 43 i membri delle forze di sicurezza che hanno a loro volta perso la vita durante gli scontri. Sarebbero poi sei le persone arrestate che hanno già ricevuto sentenze di condanna a morte (per “moharebeh“, “guerra contro Dio”), sebbene sia possibile ricorrere in appello.

Dati che arrivano nel giorno dell’anniversario delle proteste del 2019 – che nelle grandi città hanno determinato anche serrate nei bazaar, oltre a scioperi imponenti da parte dei lavoratori del petrolchimico, o in città come Tabriz, Bukan, Bandar Abbas e Sanandaj in particolare -, all’indomani della notizia della grande maggioranza (227 voti contro 63) parlamentare a favore della condanna a morte dei circa 15mila manifestanti arrestati sinora e contestualmente ad altre due importanti azioni terroristiche nel Paese, dopo l’attacco a una moschea di Shiraz risalente a quasi un mese fa e rivendicato dall’Isis.

Nel pomeriggio del 16 novembre a Izeh, nella regione meridionale del Kuzestan, uomini delle forze di sicurezza hanno infatti aperto il fuoco nei pressi di un centro commerciale, uccidendo almeno 5 persone – tra cui un bambino di dieci anni di nome Kian Pirfalak – e ferendone altre 15. Nelle ore seguenti all’episodio, a Izeh è andata in scena un’altra durissima repressione delle autorità, con più di 800 feriti e un altro adolescente ucciso, il 14enne Sepehr Magshoodi. Lo stesso governo iraniano ha fatto sapere che negli scontri degli ultimi giorni migliaia di partecipanti sarebbero ragazzini di 15/16 anni, mentre un’associazione di avvocati ha comunicato che i minori imprigionati sarebbero tra i 500 e i 1.000, anche se non è stato possibile verificare quest’ultimo dato.

È chiaro come non sia più possibile tornare indietro e qualcuno si chiede anche se non si vada verso una guerra civile a bassa intensità. Soprattutto se si considera che, nonostante l’alto numero di vittime, il regime non abbia ancora messo in campo tutte le sue ramificate strutture repressive. Dapprima la perdita di qualunque inibizione nelle proteste iniziate a settembre, con migliaia di donne che rimuovono con disinvoltura l’hijab obbligatorio, e con la presenza all’interno delle marce di cori spesso anche molto “volgari” – nelle precedenti proteste questo elemento mancava – ad indirizzo di tutte le autorità principali, a partire da Khamenei.

Poi, le azioni dimostrative contro i religiosi – ragazzi e ragazze che per strada tolgono il turbante dal loro capo -, anche in questo caso perdendo qualunque freno inibitore, polverizzando la residua patina di rispetto (o meglio, di distacco) di cui il clero poteva in un certo senso godere fino a qualche tempo fa. E infine la comparsa di armi da fuoco, con azioni dirette contro uffici governativi o delle forze di sicurezza, storicamente temute dalla società civile, e decine di scontri armati con i volontari Basiji, fino a pochi anni fa considerati inavvicinabili ed assai temuti.

I manifestanti sembrano avere sempre meno da perdere e il regime è via via sempre più convinto che godano di un sostegno da Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita in particolare: questo anche grazie ai poco prudenti endorsement pubblici o addirittura ai propositi di supporto esplicito alle proteste da parte di decine figure pubbliche in Occidente, ultimo dei quali Mark Dubowitz, uscito tre giorni fa con un eloquente editoriale dal titolo Cosa può fare Israele per queste proteste.

Un aspetto non del tutto chiaro sembra essere legato all’entità degli scioperi dei bazaari, cioè la classe sociale che 40 anni fa ha più contribuito alla rivoluzione khomeinista e che oggi sembra in parte aver aderito alle proteste, soprattutto a causa della crisi economica, ma con una postura che non appare del tutto chiara. Secondo alcuni, come il ricercatore Peyman Jafari, le chiusure dei negozi che in questi giorni stanno andando in scena sono da ascriversi più al timore di disordini e danneggiamenti che non a un’adesione di categoria alla rivolta.

Il sostegno dei lavoratori alle proteste potrebbe giocare un ruolo decisivo ma è complicato capirne la reale natura e inclinazione, anche per via della guerra di propaganda in corso che per chi segue i fatti iraniani si declina soprattutto attraverso i canali statali, da una parte, e quelli in lingua persiana basati all’estero dall’altra. Come accennato, i dati e le evidenze a disposizione suggeriscono come queste categorie si trovino nel mezzo e subirebbero pressioni in diverse direzioni, sia dalle autorità che dai manifestanti. Appare però chiaro come non sia più possibile ricondurre la situazione allo status quo precedente alla morte di Amini, poiché lo status quo si basava anche su un certo livello di “deterrenza” che il regime esercitava con la durezza delle norme e col potere sanzionatorio, diffuso su diversi livelli (i religiosi, i Basiji, la polizia morale…): in due mesi, tutto ciò sembra essere evaporato.

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