La sua terza candidatura consecutiva alla Casa Bianca viene annunciata in fretta e furia (contro i suggerimenti dei suoi strateghi) quando Donald Trump ha oltrepassato, abbondantemente, il punto di svolta verso il basso per le sue residue ambizioni politiche. Le elezioni di midterm hanno dimostrato che la sua cocciuta insistenza nel rivendicare l’immaginaria “vittoria mutilata” nel 2020 lo ha reso inviso agli elettori moderati; anzi, peggio, ridicolo agli occhi di un’America che mai perdona un bad loser.

Anche i media e gli ambienti inclini a sostenerlo – seppur con diversa intensità – da Fox News al Wall Street Journal stanno riflettendo sul danno che l’ex presidente ha inferto al partito repubblicano, in una tornata che tutti i pronostici davano come trionfatore. Trump, in poche parole, non è più in grado di fornire ciò che agogna chi lo ha sostenuto finora, al di là dei suoi meriti e del suo tossico carisma sui sempliciotti: il potere, unico metro che conti in politica.

Chi aveva creduto che The Donald potesse riportare i blue collar penalizzati dalla globalizzazione al campo repubblicano, rinverdire il nazionalismo isolazionista, dileggiare esperti e scienziati e rilanciare la crescita economica deve leccarsi le ferite. Quei temi non sono più elettoralmente redditizi e quel che di buono albergava nel trumpismo può implementarlo molto meglio un Ron DeSantis rieletto a furor di schede, senza sceneggiate, fanfaronate, aggressioni, vanagloria e divisioni.

L’ex presidente si è ripresentato di prepotenza sulla scena come un narcisista patologico vendicativo: ha offerto i suoi endorsement a personaggi mediocri e servili, che lo assecondavano nelle sue paturnie, senza badare alla loro eleggibilità e men che meno alla loro competenza. Ha imposto il suo sterile e controproducente negazionismo elettorale come atto di fedeltà. Le vittorie delle sue truppe scalcagnate nelle primarie repubblicane (contro candidati che avrebbero sbaragliato i rivali democratici), il 9 novembre, hanno evocato il destino di Pirro. Infatti i democratici, fiutando l’occasione d’oro che veniva loro scodellata su un piatto di platino, hanno speso milioni per fare propaganda a favore dei lacchè di Trump. E in tal modo sono riusciti nel colpaccio al Senato.

Certo rimangono ancora in circolazione parecchi fanatici di Trump, quelli che abboccano al vittimismo squinternato, che applaudono al trito spettacolo da circo triste del Make America Great Again, che credono alla riscossa degli ultimi, per intercessione divina, di un palazzinaro miliardario. Ma al contrario dell’Italia, l’America è una società pragmatica. Contano i risultati e non le giaculatorie o le sparate in tv. E oggi la realtà e incontestabile: Trump ha perso, Biden ha pareggiato, DeSantis ha vinto. Per la campagna elettorale del governatore della Florida sono pronti due miliardi di dollari. Lo schianto a Mar-a-Lago sarà fragoroso.

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