Effettivo“: un semplice aggettivo – in apparenza superfluo – influirà nella elezione dei nuovi membri “laici” del prossimo Consiglio superiore della magistratura. È quell’aggettivo, infatti, che probabilmente sbarrerà la strada della candidatura ad Alfonso Bonafede, l’ex guardasigilli il cui nome circola da mesi come potenziale futuro consigliere di palazzo dei Marescialli, in quota M5s. E lo sgambetto allo storico esponente grillino arriva da un ex collega: quel Lorenzo Fontana che fu ministro insieme a lui nel governo gialloverde e da qualche settimana occupa lo scranno più alto di Montecitorio.

Per capire la questione occorrono vari passi indietro. Il primo porta allo scorso 28 ottobre, quando il presidente della Camera convoca per il 13 dicembre il Parlamento in seduta comune (all’esordio nella nuova legislatura) per l’elezione dei dieci membri del Csm riservati alla politica: professori universitari ordinari in materie giuridiche o avvocati con almeno 15 anni di esperienza, che si affiancheranno ai ventitogati” già scelti da giudici e pm nelle proprie file. Rispetto alla precedente tornata di luglio 2018, però, c’è una novità di procedura: se prima i parlamentari potevano votare chiunque avesse i requisiti, adesso – per effetto della riforma dell’ex ministra Marta Cartabia approvata a giugno – le candidature devono essere formalizzate attraverso “procedure trasparenti, da svolgere nel rispetto della parità di genere”.

A definire queste procedure ci ha pensato un atto del presidente della Camera, che Fontana ha presentato alla conferenza dei capigruppo di lunedì. Vi si legge che le candidature devono essere presentate tramite pec, entro le ore 9 di sabato 10 dicembre (tre giorni prima del voto), dagli interessati o per loro conto da almeno dieci parlamentari (appartenenti ad almeno due diversi gruppi), allegando un documento d’identità e l’autocertificazione dei requisiti “previsti dalla Costituzione e dalla legge” per l’elezione. Al momento di citare quei requisiti, però, è stato aggiunto al regolamento un aggettivo che nella Costituzione non c’è. L’articolo 104 della Carta, infatti, recita che i laici sono eletti “tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio”. Mentre nell’atto di Fontana si parla di “quindici anni di esercizio effettivo“. A prima vista una modifica ininfluente, a meno di non conoscere la particolare situazione di Bonafede. Il termine ‘”effettivo”, infatti, sembra scritto apposta per bloccare la candidatura dell’ex ministro, iscritto all’albo degli avvocati di Firenze dal 5 settembre 2006 – quindi da più di 16 anni – ma sospeso per legge dall’esercizio della professione durante i due anni e mezzo dell’incarico di governo. A considerare il periodo complessivo di iscrizione, dunque, Bonafede potrebbe risultare eleggibile, mentre contando solo gli anni “effettivi” di esercizio, come impone l’atto di Fontana, non lo è.

A convalidare l’elezione riconoscendo la sussistenza dei requisiti, di solito, è lo stesso Csm durante la prima seduta. Un caso recente di annullamento è quello della professoressa Teresa Bene, votata nel 2014 dal Pd guidato da Matteo Renzi ma dichiarata ineleggibile perché non aveva alcuna cattedra da docente ordinario, (ma soltanto la relativa abilitazione). A decidere su un’eventuale elezione di Bonafede, pertanto, dovrebbe essere il plenum. Il regolamento redatto da Fontana, però, vorrebbe imporre ai candidati ancora prima del voto di autocertificare un requisito non previsto dalla Costituzione, l’esercizio “effettivo” per più di 15 anni. Qualcosa che l’ex ministro non potrebbe affermare senza commettere un falso. E d’altra parte non si capisce perché dovrebbe farlo, se la stessa Carta non lo richiede. Di sicuro c’è solo che, stando così le cose, appare molto improbabile a questo punto che i 5 stelle puntino su Bonafede per Palazzo dei Marescialli.

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