Sarà l’esordio delle nuove Camere in seduta comune, nonché un’importante occasione per testare gli equilibri della maggioranza di governo. Nelle prossime settimane il Parlamento dovrà eleggere i dieci membri laici del nuovo Consiglio superiore della magistratura: sono professori universitari ordinari in materie giuridiche o avvocati con almeno 15 anni di esercizio, che si affiancheranno ai venti togati già scelti da giudici e pm. La riunione congiunta di Camera e Senato avrebbe dovuto tenersi già il 21 settembre (subito dopo le elezioni dei togati) ma lo scioglimento seguito alla caduta del governo Draghi ha causato il rinvio alla nuova legislatura. Così il voto sarà inedito da almeno tre punti di vista: i posti in palio (dopo la riforma della guardasigilli uscente Marta Cartabia) saranno dieci e non più otto, i parlamentari che li eleggono saranno 600 invece di 945, gli aspiranti consiglieri dovranno essere per la prima volta formalmente “candidati” rispettando la parità di genere (un’altra novità della riforma). Identica invece la maggioranza necessaria: servono i tre quinti del totale dei deputati e senatori, un quorum che costringe ad accordi tra maggioranza e opposizioni. Sulle scelte dei partiti peseranno l’esito delle elezioni politiche (con vari delusi rimasti fuori dal Parlamento che aspirano al ripescaggio a Palazzo dei Marescialli) e soprattutto le partite parallele dei posti di governo e degli altri organi di nomina (in parte) parlamentare, come il Consiglio superiore della giustizia amministrativa, l’equivalente del Csm per i giudici dei Tar e del Consiglio di Stato.

Considerati i numeri del nuovo Parlamento, è probabile che sette seggi vadano al centrodestra (di cui tre a Fratelli d’Italia e due ciascuno a Forza Italia e Lega) e uno ciascuno a Pd, Movimento 5 stelle e Azione-Italia viva. Ma c’è un’incognita non di poco conto: con l’aiuto dei trenta eletti di Carlo Calenda e Matteo Renzi, la maggioranza avrebbe i numeri per fare a meno di dem e pentastellati. Una soluzione scortese dal punto di vista istituzionale, ma che non è possibile escludere a priori. Per quanto riguarda il totonomi, nel partito di Giorgia Meloni gli indizi porterebbero al responsabile Giustizia, l’avvocato piemontese Andrea Delmastro Delle Vedove; in alternativa c’è Alberto Balboni, senatore uscente e avvocato (rieletto alla Camera), che per FdI ha seguito l’iter delle riforme Cartabia. Ma non è escluso – in continuità con le scelte per il governo – che i meloniani puntino a un “tecnico” di area, cioè a un docente universitario vicino alle posizioni di Fdi. Per la Lega il nome in pole sembra quello di Francesco Urraro, membro uscente della Commissione Giustizia del Senato, presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Nola. Se non andrà al governo, però, potrebbe aspirare al Csm anche il presidente della Commissione Andrea Ostellari, appena rieletto. Stessa situazione in Forza Italia, dove Francesco Paolo Sisto potrebbe scegliere di andare a Palazzo dei Marescialli se non dovesse essere confermato come sottosegretario uscente alla Giustizia. Tra i berlusconiani sono poi in lizza Pierantonio Zanettin (già deputato e ora senatore, membro laico del Csm nella consiliatura 2014-2018), Fiammetta Modena e Roberto Cassinelli (entrambi parlamentari uscenti e non rieletti).

Interessante anche la partita interna alle forze di opposizione. Per il Movimento 5 stelle resta quotato il nome dell’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, uno dei big non ricandidati per la regola del doppio mandato. In alternativa i nomi caldi sono quelli di Ettore Licheri, capogruppo uscente al Senato (rieletto alla Camera), e Mario Perantoni, finora presidente della Commissione Giustizia della Camera (ma non rieletto). La prima scelta del Pd, invece, sarebbe un tecnico: il professor Massimo Luciani, avvocato di fama, presidente dell’Associazione italiana dei costituzionalisti e già a capo della commissione di studio sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, creata dalla ministra Cartabia. Per accettare la candidatura, però, Luciani chiede la garanzia che sarà lui il vicepresidente di palazzo dei Marescialli, cioè il numero uno di fatto dell’organo in assenza del presidente della Repubblica. Un’assicurazione difficile da ottenere in un plenum in cui la maggioranza dei laici (e almeno la metà dei togati) sono di area conservatrice. L’accademico, però, può contare sul proprio prestigio che potrebbe convincere anche i togati di Magistratura indipendente e Unità per la Costituzione (le correnti “moderate” delle toghe) a votare per lui se il candidato del centrodestra fosse un nome ritenuto di più basso livello.

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