Cinema

Brado, la terza volta alla regia di Kim Rossi Stuart: “Questo è Renato, il Clint Eastwood dei poveri”

Brado è cinema robusto, rude, volutamente villico, dove il luciferino cinismo di Renato sbatte ciclicamente contro il sofferto rispetto e l’edipico odio viscerale del figlio.

di Davide Turrini

“Questo è Renato, il Clint Eastwood dei poveri”. C’è una discreta dose di autoironia, in mezzo a tanto malmostoso rancore familiare, in Brado, opera terza alla regia per Kim Rossi Stuart (qui anche coprotagonista assieme al leggiadro Saul Nanni). E la spariamo naturalmente grossa. A noi Kim piace quasi più da regista che da attore. Qui in Brado a solleticare con garbo archetipi di genere, a sgrezzare linee essenziali di dialogo, conflitto e sentimento, a distanziarsi senza timore dal tinello del cinema italiano medio, per una storia western contemporanea, l’addestramento di un cavallo che può essere campione, metafora rurale di un complesso, inespresso e rabbioso rapporto padre/figlio. Renato (Stuart) padre “scassato”, ossa fratturate in serie, casupola in mezza alle colline tra luride lamiere, titolare di un piccolo maneggio dove tiranneggia qualche sparuto cliente; Tommaso (Nanni), rope assistant sospeso tra pareti di grattacieli in città ma poi legato a trotto, galoppo e corse ad ostacoli fin da bambino in mezzo alla natura con mamma assente (“quella troia”, dice Renato) e la crudeltà di babbo che si appiccica nella psiche come un sudario che strozza.

Il ragazzo tornerà nuovamente da babbo con braccio ingessato per gestire e infine allenare un cavallino imbizzarrito che promette bene. Per farlo gareggiare ad un importante gara di cross country i due verranno assistiti dalla giovane Anna (una vera campionessa di equitazione, Viola Sofia Betti), la figlia di un ricco allevatore della zona (toh, il produttore di mezzo cinema italiano, Carlo Degli Esposti della Palomar), della quale Tommaso si innamorerà. Giacconi di velluto e jeans con la lana che trabocca alla Brockeback Mountain, campi lunghi contemplativi che si fermano un attimo prima che scatti il registro romantico, mai ingombranti ma atipici accordi country di chitarra all’americana (bravo Andrea Guerra), Brado è cinema robusto, rude, volutamente villico, dove il luciferino cinismo di Renato sbatte ciclicamente contro il sofferto rispetto e l’edipico odio viscerale del figlio. E in questa surplace familiare, il cavallo e la gara finiscono per fare quasi da sfondo, elevando (qui c’è tanto Eastwood) il filo generazionale che tende a spezzarsi a cuore pulsante dell’intero film. Kim si ritaglia una battuta caustica sulla fede, fa sentire in sottofondo un tg con la politica conquistata dalla finanza, e lascia briglia sciolta a una libido maschile etero (“quella è un bel bocconcino”, “sento sta cosa dura dietro”) oggi paradossalmente diventata merce rara, finanche rivoluzionaria. La mezza parlata umbro laziale toscana è una trovata estremamente efficace per l’imprecisata collocazione geografica della storia. E Nanni, una specie di Gianni Morandi con sguardo alla Luc Merenda, sorprende ogni volta di più. Una sola notazione: Clint i cuccioli di cane non li avrebbe affogati.

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