Sono le 3:15 della notte del 3 ottobre. A Lampedusa pian piano, nel silenzio rotto solo da qualche motorino, si riunisce una piccola folla intorno al monumento alla “nuova speranza”. La mano di un uomo, una mano dalle grandi dita nodose, maltratta il proprio stesso volto. Una, due, tre, quattro, cinque volte. Smetto di contarle, perché sono movimenti continui e strazianti. Il pollice e l’indice spingono sugli occhi, nel tentativo di non far sgorgare le lacrime, di ributtarle giù.

Sono lacrime che vengono dal profondo, qui a Lampedusa. Lacrime di un uomo giovane e grosso, lacrime di un uomo nero, uno di quelli che le destre nostrane descriverebbero come palestrati e forti, ergo non meritevoli di alcuna accoglienza. Per loro meglio il “blocco navale”, meglio i respingimenti. O, come ebbe a dirmi Gemmato, responsabile Sanità di Fratelli d’Italia, persone cui bisognerebbe “sparare alla schiena” perché colpevoli di scappare da qualche guerra anziché imbracciare un bel fucile per difendere patria e famiglia (e forse anche Dio).

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Sono le lacrime di un sopravvissuto. Uno dei 150 che quel 3 ottobre 2013 non è stato risucchiato dalle acque di quel Mar Mediterraneo che si è trasformato in una fossa comune, troppo simile a un cimitero. Francesco Piobbichi, che è qui con le Chiese valdesi, mi ricorda che dopo quella strage e oltre le fanfare di Stato, i corpi di altri 25mila esseri umani sono diventati cibo per pesci. Come a dire che quella strage non ha cambiato il corso della storia.

Quel 3 ottobre 2013 un’imbarcazione con a bordo più di 500 uomini, donne e bambini, per lo più etiopi, eritrei, somali, ha problemi meccanici. Il panico si sparge a bordo. Il peso di quel carico di umanità si sposta su un unico lato. La nave si ribalta. Più di 500 persone finiscono in acqua. Per 368 non ci sarà alba a svegliarli. Per gli altri, invece, arrivano imbarcazioni di pescatori – lì per caso – come una manna dal cielo. Sono passati 9 anni, ma le immagini di quella notte nella mente di quei soccorritori sono impresse come cicatrici indelebili, che nessun tempo potrà portare via: “‘Children! Children!’ – urlavano. Ma non siamo riusciti a salvare nessun bambino”, racconta una delle donne che ha tirato su, su una piccola imbarcazione da pescatori, 47 persone, salvando loro la vita.

Stanotte a Lampedusa si ricorda. È elaborazione collettiva di un lutto che non abbandona, che si manifesta nella psiche di chi si è salvato e di chi ha salvato. Un trauma che viene rivissuto ogni anno, ogni 3 ottobre alle 3:15, probabile ora del naufragio. Non è solo esercizio di memoria, ma terapia collettiva.

Poi c’è la dimensione politica. Quella che di fronte a una immane strage manda a processo i sopravvissuti per il reato di immigrazione clandestina; quella che mette in stato d’accusa il proprietario di una delle barche che ha permesso di salvare vite umane, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Accuse presto cadute, ma che mettono in rilievo la distanza tra le leggi dei governi di destra, centro e sinistra che si sono succeduti dagli anni Novanta a oggi e la legge dell’Uomo, del mare o divina che dir si voglia, che prescrive: prima salvare, poi parlare.

Sono passati 9 anni da quella strage. C’è stato “Mare Nostrum”, ci sono state le missioni di salvataggio nel Mediterraneo. Poi è arrivata la retorica dei “taxi del mare”, i memorandum con la Libia del dem Minniti, i decreti sicurezza del governo M5S-Lega. E lo spostamento di un senso comune, oggi sempre più incline a concepire il migrante come minaccia. Con le forze della destra (ma non solo) che soffiano sul vento dei “migranti come problema”. Non per la incolumità fisica della popolazione – non si registrano episodi in tal senso – ma perché gli sbarchi rischierebbero di rovinare l’immagine dell’isola, di offuscarne le bellezze, di respingere i turisti, fonte di ricchezza. E piuttosto che respingere loro, meglio – forse – respingere i migranti. A contare, più che il colore della pelle, è il portafogli.

Oggi sull’isola tornano le autorità. Quelle che si presero i fischi della popolazione, abbandonata a se stessa a salvare vite. Deporranno una ghirlanda, offriranno parole di circostanza. Che non leniranno il dolore e non offriranno prospettive e orizzonti futuri. Perché le lacrime di coccodrillo figlie dell’ipocrisia istituzionale non hanno mai dato vita ad alcuna pianta della speranza.

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