di Cristian Giaracuni

Davanti all’ennesima disfatta politica del Pd c’è ancora qualcuno che si stupisce e s’interroga pensoso invocando la seria riflessione che rilanci il partito verso la riscossa. In realtà non c’è nulla di nuovo visto che il Pd subisce ad ogni tornata elettorale, dal 2008 in avanti, una costante e irreversibile emorragia di voti che lo ha condotto all’attuale stato di pre-morte politica.

Le cause sono sempre le stesse, mai affrontate. I protagonisti più o meno anche, mai chiamati seriamente a rispondere. Gli errori strategici e comunicativi di Enrico Letta sono talmente marchiani che le sue dimissioni sono il minimo sindacale ma la sostituzione del segretario sarà azione necessaria ma non sufficiente a cambiare le sorti di un partito nato marcio e cresciuto storto, senza identità né visione né appeal. Nato dalla “fusione a freddo” tra due mondi, il Pd non è e mai è stato un vero partito di sinistra e questo è il vero autentico peccato originale che distrugge il partito dall’interno, un nodo che nessuno ha mai avuto il coraggio di sciogliere.

Per avere un senso, oltre che di un nuovo segretario, il Pd avrebbe bisogno di una radicale rifondazione che ne ricostruisca le fondamenta valoriali e stabilisca nuovi ideali e chiari obiettivi da perseguire. Dovrebbe riscoprire, ristudiare e fare propri quei valori e quegli obiettivi che hanno caratterizzato la storia della sinistra italiana. Dovrebbe quindi scegliere da che parte stare e quali interessi rappresentare: quelli degli ultimi, dei lavoratori, delle piccole imprese e di tutti coloro i quali chiedono protezione sociale, oppure quelli delle élite, del capitale, delle grandi aziende e dei mega-profitti. Quelli dei molti o quelli dei pochi. Dovrebbe uscire dalla logica del “ma anche” veltroniano che è la vera gabbia che sta soffocando il Pd sin dalle origini. Perché un partito non può essere bianco ma anche nero.

Non può includere tutto e il suo contrario. Non può accogliere sguardi opposti e contrapposti sul mondo. Fatta la necessaria scelta di campo e ritirate le mani dagli interessi economici in cui è invischiato, il Pd dovrebbe formulare e proporre una visione del mondo alternativa che sappia interpretare le grandi questioni che la storia ci sta sottoponendo costruendo un paradigma alternativo a quello proposto dalla destra a cui dice, da anni e a parole, di voler dare battaglia. Dovrebbe ripensare la politica, non più come l’arte del possibile ma come strumento di creazione dell’impossibile, cioè di nuove possibilità e per fare questo dovrebbe abbandonare l’ossessione governista che l’ha imbullonato al governo, comprendendo che la mera gestione del potere non è sinonimo di responsabilità e che la stabilità non è un valore in sé se non serve a fornire risposte e protezione ai soggetti che si dice di voler rappresentare.

Dovrebbe poi scegliere i giusti compagni di strada. Smettendo di guardare al M5S con quella spocchia e quella superiorità morale e intellettuale, peraltro totalmente ingiustificate, viste finora e riconoscere al partito fondato da Grillo il merito di aver supplito proprio alle carenze politiche del Pd e di aver combattuto quelle battaglie tipiche della sinistra che proprio il Pd, sin dalle sue origini, scientemente rifiutato di combattere seriamente. Quindi dovrebbe riaversi definitivamente dalla sciagurata infatuazione per quella costola del centrodestra rappresentata dal duo Renzi-Calenda e smettere di cercare di rubare i voti alla destra o, tantomeno, ai partiti affini, per cercarli invece in quell’immenso serbatoio dell’astensione dove ristagnano i vito dei disillusi e dei rassegnati.

La sensazione però è che tutto questo non succederà. Perché la “riflessione” sta portando semplicemente alla spasmodica ricerca di un’altra foglia di fico da issare come paravento al solito circo delle correnti, interessate a garantire la sopravvivenza dei propri capibastone. Un’altra finta rivoluzione per la nuova prossima disfatta davanti a cui stupirsi un’altra volta.

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