di Monica Valendino

C’è solo una cosa che il Pd può fare dopo la seconda disfatta consecutiva alle politiche: sciogliersi. Lasciare il campo largo, anzi aperto a tutti gli esodati di accasarsi pure di qua e di là nel centrodestra, come del resto sono già allenati a fare da tempo. Una cosa però sia chiara: nessuno di lorsignori può avere l’arroganza di definirsi di sinistra. Da quando il Pds nel 1994 perse contro Berlusconi con la “gioiosa macchina da guerra” che riuniva davvero l’ala sinistra del parlamento per la prima volta dal dopoguerra, c’è stato un terrore endemico all’interno del partito che l’ha portato fino alla surreale situazione di oggi, ovvero inseguire talmente i voti delle destre fino a parlare come chi di destra è nato.

Il peccato originale fu l’Ulivo. Pur di vincere Veltroni e compagnia decisero di aprire le porte ai sopravvissuti della Dc (la Margherita): è vero, vinsero anche le politiche, ma il germe oramai era entrato in casa e da allora ha via via spodestato quel che c’era di sinistra per portare avanti quello che la vecchia guardia democristiana è sempre stata, ovvero un partito nato per il potere che non ha ideologia se non quella di governare a ogni costo. I vecchi elettori del Pci si sono fidati creando quello zoccolo duro che anche oggi consente di arrivare al 20 per cento. Ma mentre si acquistava consenso nei centri storici distanti dalle realtà, si perdeva l’identità, ovvero la cosa più importante che un partito ha da offrire.

L’idea veltroniana di essere dalla parte degli operai ma anche dei banchieri, dei pensionati ma anche degli imprenditori, ha fallito miseramente. L’aver inglobato i liquidatori dei beni dello stato ha fatto il resto: Prodi con le privatizzazioni, poi Ciampi, Monti, Renzi, fino a Draghi, ovvero quello che più lontano ci può essere rispetto al popolo che il Pd avrebbe dovuto rappresentare e rappresentava con il vecchio Partito comunista. Pensare che se il comunismo aveva fallito in Russia allora era ora di dismetterlo è stato un crimine, verso i propri elettori prima di tutto: perché ha lasciato l’Italia di fatto senza una identità di genere nel Parlamento.

Perché i crimini sovietici, così come i crimini dei socialisti nostrani emersi con Tangentopoli, nulla hanno a che fare con quello che l’idea rappresentava. Abbandonarla, addirittura tradirla compensando il tutto con qualche battaglia per dei diritti ha portato l’Italia a non avere dei rappresentanti capaci di lottare per i diritti di operai, lavoratori, pensionati, insomma quelle classi sociali che stanno pagando una crisi nata già a inizio secolo e ingrossatasi negli anni. La reazione isterica contro quel Movimento 5 Stelle che ha preso il posto in quell’area fin dal 2013 fa comprendere come oramai il Pd sia un partito del sistema e per il sistema. Inutile quindi cambiare segretario o pensare che un’alleanza elettorale con Verdi e Sinistra Italiana possa cambiarne le sorti.

Conte, che ha pagato proprio gli sbandamenti del Movimento da quando ha deciso incautamente di appoggiare il governo dei migliori, ha capito che la strada per dare all’Italia una vera rappresentanza di classe è schierarsi senza esitazione da quella parte, senza sotterfugi. In soli due mesi è riuscito a convincere molti elettori, anche quando oramai sembrava davvero una missione impossibile superare il 10 per cento. Ora: che si chiami sinistra, Movimento o altro, non ha più importanza: l’importante è che ci sia una rappresentanza popolare che può solo crescere. A patto che non faccia l’errore di appaiarsi ancora col Pd, chiunque lo guidi in futuro. Come detto, per quel partito l’unica strada è sciogliersi e buon viaggio con i “compagni” prediletti, Calenda, Renzi, Berlusconi.

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