Quando nel giugno di quattro anni fa esordì il primo governo di Giuseppe Conte, gialloverde, l’allora ministro leghista Giancarlo Giorgetti fece una raccomandazione ai suoi colleghi di partito chiamati con lui nell’esecutivo: “Mettete sul comodino una foto di Matteo Renzi, ricordatevi di quando prese il 40 per cento (elezioni europee del 2014, ndr) e vedete che fine ha fatto oggi (il 18 per cento del Pd alle Politiche del 2018, ndr)”. E’ la fatidica volatilità del voto degli italiani, che nell’ultimo decennio ha esaltato e poi fatto cadere almeno tre leader, ciascuno interprete di un populismo con sfumature diverse se non opposte: Renzi, appunto; Luigi Di Maio, a capo di un Movimento che nel giro di un anno passò dal 32 al 17 per cento (Europee del 2019) nonostante l’approvazione del Reddito di cittadinanza nel settembre del 2018; infine Matteo Salvini, protagonista di un crollo dal 34 per cento (sempre Europee del 2019) all’8,7 del 25 settembre.

Il paradosso meloniano

E’ scientificamente certo, allora, che questo è l’assillo che tormenta gioiosamente Giorgia Meloni dalla notte di domenica scorsa. L’ex quarta fila della corrente tatarelliana e centrista di An (prima di lei venivano La Russa, Gasparri e Bocchino) al termine di una lunghissima traversata nel deserto dell’opposizione ha più che sestuplicato i voti del suo partito nazionalista e sovranista, dal 4 al 26 per cento. Quella che sarà la prima premier donna della nostra storia repubblicana – a meno di clamorose sorprese provocate dai ricatti di Lega e Forza Italia – si trova già stretta in un paradosso che non sarà facile sciogliere e risolvere. Da un lato dimostrare un profilo sobrio e affidabile (niente festa come accadde dopo le vittorie di Alemanno al comune di Roma e di Polverini alla Regione Lazio) e tentare di realizzare le promesse elettorali, garantendo una transizione “dolce” con le politiche economiche di Mario Draghi. Dall’altro mantenere e dare un segno tangibile della sua identità di destra (presidenzialismo e compressione dei diritti civili), a capo di una comunità che ha sempre avuto un giudizio benevolo sul fascismo e che si richiama più a Giorgio Almirante che a Gianfranco Fini, cioè al leader missino che a metà degli anni settanta disse pubblicamente di augurarsi un colpo di Stato come in Grecia per impedire un’eventuale vittoria del Pci.

Non solo. Per evitare la mannaia della volatilità elettorale a partire già dalle prossime Regionali, Meloni deve tenere conto di altri due fattori. Il primo è quello che nella classe dirigente di FdI non ci sono fenomeni. Anzi, le vittorie passate dei candidati presidenti di FdI nelle Marche e nella Sicilia, per fare due esempi tangibili, non hanno sancito svolte memorabili. Il secondo l’ha scritto Marco Palombi sul Fatto: i voti della coalizione di destra sono gli stessi del 2018, dodici milioni, e addirittura meno di quelli alle Europee del 2019, tredici milioni.

Astensionismo, primo partito

A far lievitare la percentuale di Fratelli d’Italia è stata l’astensione record di queste elezioni. Per la prima volta nella Repubblica, il partito dei non votanti è stato il primo, con oltre diciotto milioni di persone che non sono andate alle urne. L’Italia è sempre stato un Paese modello di civismo dal punto di vista elettorale e invece adesso ci siamo allineati alla media occidentale. Ma c’è un dato a indicare in modo netto la sfiducia, la rabbia, la rassegnazione, il pessimismo di chi non va a votare: nel 1992, alla fine della Prima Repubblica, l’astensionismo era al 12,65 per cento. Trent’anni dopo è al 36,09, cioè oltre diciotto milioni di persone. Una massa imponente e clamorosa.

A interrogarsi su questo deve essere soprattutto il Pd del dimissionario Enrico Letta. Dalla fusione fredda del 2007 si è arrivati a un blob informe e sovente maleodorante per vari motivi (il clientelismo, il gestionismo, il familismo, l’indifferenza per la questione morale). Si può riflettere su decine di difetti (mortali) di questo partito che ha unito postcomunisti e postdemocristiani di sinistra. Ma basta guardare una foto per riassumere l’irriformabilità del Pd. Si potrebbe essere tentati di pescare quella che vede eletto Pier Ferdinando Casini a Bologna, ma forse la più efficace è quella di Dario Franceschini. Di tutti i vecchi big e dinosauri democrat è l’unico rimasto a fare il capocorrente e il ministro eterno della Cultura e in queste elezioni se n’è andato a farsi eleggere a Napoli, per evitare un sicuro flop nella sua Ferrara. Bene. Con lui capolista nel capoluogo della Campania, il M5S ha superato il 40 per cento, staccando il Pd di oltre venti punti. Una catastrofe.

Eppure Franceschini è uno di quei big che contribuisce e fare e disfare segretari e premier e stavolta ha dovuto pure accontentare la moglie Michela Di Biase, ansiosa di passare dalla Regione Lazio alla Camera dei deputati (è stata eletta nel plurinominale bloccato). Ed è l’incarnazione, Franceschini, di una concezione neodorotea del potere che alla fine ha contagiato pure i postcomunisti. Altro che unire le tradizioni migliori di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer.

L’albero dei Cinque Stelle

Nel deserto della sinistra tradizionale al momento resta il nespolo del M5S, per usare la metafora postata da Beppe Grillo. Un albero malato che alla fine non viene abbattuto e continua a dare frutti. Senza dubbio il merito è di Giuseppe Conte, che appena due mesi fa ha cominciato una campagna elettorale con percentuali sotto il dieci per cento. Certo, non è il 32 di quattro anni fa e sono in tanti, tra gli astensionisti, a non fidarsi più del M5S. Detto questo, Conte ha evitato la scomparsa dei grillini e adesso può rilanciare un’azione progressista.

Tre i suoi punti di forza: il reddito di cittadinanza al Sud (laddove è andato l’affluenza è stata ancora più bassa di quella nazionale); la scelta di offrire un’immagine rinnovata dei candidati, tra scissioni, addii e secondo mandato; il fatto che l’Agenda Draghi alla fine si è rivoltata contro quelli che l’avevano sostenuta e propagandata. Ora, è chiaro che la prospettiva isolazionista non porta da nessuna parte, neanche col sistema proporzionale, ma Conte ha tutto il tempo di pianificare con calma una nuova strategia per un sistema di alleanze a sinistra. Sempre che voglia rimanere lì, dimostrando fino in fondo la vacuità nel lungo periodo del Movimento né di destra né di sinistra del 2018. Per questo, l’opposizione farà bene anche a lui per discernere il grano dal loglio, dopo quattro anni di governismo.

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