Nel primo semestre del 2022 oltre 1 milione di persone ha dato le dimissioni dal proprio posto di lavoro. A certificare l’ondata sono gli ultimi dati pubblicati dall’Osservatorio sul Precariato dell’Inps, che rilevano che nei primi sei mesi dell’anno 1 milione e 80mila persone hanno lasciato il proprio posto, un aumento del +31,73% rispetto all’anno precedente, unito a un +26% di assunzioni, per un saldo positivo complessivo di 946mila nuovi posti. Dati di forte impatto per dimensioni assolute e che sembrano descrivere un andamento del mercato del lavoro più dinamico rispetto agli ultimi anni, come spiega a ilfattoquotidiano.it Francesco Armillei, dottorando in Scienze Economiche e socio del think-tank Tortuga, tra i primi ad aver studiato il fenomeno delle “grandi dimissioni” in Italia.

“Il numero di dimissioni continua a essere significativo e rimane su livelli molto alti da ormai un anno e mezzo e questo è un fenomeno che gli osservatori non vedevano da molto tempo, ma è coerente con il quadro economico e le dinamiche innescate dal forte rimbalzo del Pil del 2021 e del primo trimestre 2022 a seguito della crisi provocata dalla pandemia”, spiega. “All’interno di questo contesto un numero di dimissioni molto alto non è anomalo, ma soprattutto non è un fenomeno senza precedenti: era già stato osservato nei primi anni 2000, prima della grande crisi del 2008 che ha portato a una stagnazione delle dinamiche del mercato del lavoro”.

Quali sono le ragioni che spiegano questa nuova dinamica del mercato del lavoro? Ad aumentare è stata principalmente la domanda di lavoratori da parte delle imprese. Dunque, in sostanza, le aziende nel post-pandemia hanno cercato più lavoratori rispetto agli anni passati. Non solo la domanda delle imprese è stata maggiore, i dati certificano che è aumentata la percentuale di lavoratori che trova un nuovo impiego in un tempo molto breve dopo essersi dimesso, unita alla diminuzione di questo tempo medio. “Sono per la maggior parte spostamenti all’interno del mercato del lavoro”, spiega Armillei, che aggiunge: “Negli Stati Uniti i salari di chi si sta spostando da un lavoro all’altro sono in aumento, mentre i salari di chi rimane rimangono piatti. Sull’Italia al momento non abbiamo ancora questo tipo di dati, ma è probabile che la dinamica sia molto simile”.

Qual è il profilo demografico dei lavoratori dimissionari? Prendendo in analisi i dati più recenti, nel 2021 si osservava che il 55% delle dimissioni volontarie riguardava chi aveva un contratto attivo già da due o tre anni. L’aumento era principalmente trainato dagli uomini rispetto alle donne e dal 2019 al 2021 l’incremento è salito al crescere dell’età al momento della dimissione del lavoratore. Nel 2021, inoltre, si è verificato un grandissimo aumento delle dimissioni da contratti a tempo determinato, che è cresciuto di oltre 20 punti percentuali e ha pesato per oltre la metà del totale. “Di questi dati demografici al momento non esiste un’analisi aggiornata al 2022, ma guardando quelli relativi agli anni precedenti si osserva una certa stabilità nel profilo dei dimissionari. Basandomi su questo, mi aspetto che possano sostanzialmente proiettarsi anche al 2022”, spiega Armillei.

Il fenomeno delle grandi dimissioni è trasversale sia a livello globale sia per quanto riguarda la tipologia dei lavoratori. “Secondo me non è completamente corretta la lettura che vuole il fenomeno circoscritto ai giovani, a una particolare categoria demografica o a determinati settori o professioni, è estremamente trasversale – sottolinea Armillei – Sulle motivazioni penso che ci sia ancora da indagare, ma se da un lato il fenomeno ha una sua coerenza con il quadro economico, dall’altro sono convinto che la situazione pandemica abbia comportato un’esperienza particolare, molto forte e traumatica per alcuni, quindi faccio fatica ad escludere del tutto che questa esperienza abbia innescato un cambiamento nella mente delle persone”.

Le prospettive per il futuro del mercato del lavoro sono decisamente peggiori rispetto a quelle osservate nell’ultimo anno e mezzo. Complice il quadro geopolitico e macroeconomico, nei prossimi sei mesi è molto probabile che la situazione subirà un deciso cambiamento. Secondo Armillei, “la percezione è che un rallentamento prima o poi dovrà arrivare. Sebbene nel secondo trimestre 2022 questo scenario non si sia ancora verificato, nonostante l’origine dei problemi che potrebbero provocare la recessione – come la guerra in Ucraina, la conseguente crisi energetica e l’aumento dell’inflazione – i numeri ci dicono che queste problematiche non hanno avuto un impatto immediato sull’economia”. In autunno però “il livello di problematicità delle questioni energetiche e inflattive renderà il sistema economico più fragile e anche l’incertezza politica non aiuterà. Non importa chi vincerà le elezioni, ma i tempi della formazione del governo porteranno all’approvazione di una legge finanziaria in tempi ristretti e questo temo contribuirà a mantenerci esposti a una situazione di difficoltà”, spiega. Che cosa significa? Il rischio è quello di una diminuzione dell’offerta di nuovi posti di lavoro. Che ridurrebbe la possibilità di cambiare lavoro per i lavoratori intenzionati a dimettersi dall’attuale impiego.

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